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teologia
Un testo che fin dalla sua prima riattualizzazione ha prestato il fianco alle più ardite utilizzazioni in chiave di normatività etico-religiosa del matrimonio, finendo col perdere quasi del tutto le sue originarie connotazioni eziologiche: dichiarare la coessenzialità della relazione sessuale con la vita stessa, vale a dire la sua inviolabile naturalità e libera spontaneità. Marco e Matteo: idealità e contingenza storica Lo abbiamo incontrato, una prima volta (“il foglio” n. 413), messo in bocca a Gesù da Marco (10, 6-8) e Matteo (19, 4-5), unito in collage con Gn 1, 27: «Dio li creò maschio e femmina: per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne». Segue e lo completa la sentenza: «Sicché non sono più due ma una sola carne. L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha unito» (Mc 10, 9; Mt 19, 6), che non suona come norma legale, ma come naturale conclusione di un azione creativa, totalmente positiva. Suona come l'esplicita dichiarazione che la sessualità, con l'unione dei due in uno, è dono e come tale va vissuta in piena e libera assunzione di responsabilità. A fronte della domanda sulla possibilità di regolare giuridicamente l'unione e la separazione del marito dalla moglie, consentendo il ripudio al marito, Gesù, in sostanza rifiuta di prendere in considerazione il problema postogli dal punto di vista del legislatore, che, come Mosè deve tenere conto della storica durezza di cuore degli uomini. Evoca la condizione ideale e fondativa della relazione uomo-donna e a partire da quell'ideale posizione di principio, invita a riflettere sul tema della sessualità. Solo in un secondo momento Marco e Matteo, ipotizzando una traduzione in norma per le proprie comunità di tale richiamo, completano le parole di Gesù col rifiuto totale o parziale del ripudio e della nuova unione (Mc 10, 10-12; Mt 19, 9). Paolo: la sessualità come pericolo Incontriamo una seconda volta Gen 2, 24 sulla penna di Paolo. L'Evangelizzatore delle genti, infatti, convinto che i giorni che lo separano dalla parousia siano ormai contati e che l'arrivo imminente del Regno determini pure la fine del mondo materiale, utilizza tale richiamo in chiave negativa. Per lui il perdurare del desiderio sessuale è segno del perdurare di eccessivo attaccamento alle esigenze di una vita corporea ormai sostanzialmente superata, anzi in potenziale e radicale contrasto con la vita nuova che attende i cristiani, ormai compartecipi alla resurrezione del Cristo. Non sarebbe facile immaginare una contrapposizione più netta tra l'uso che fa Gesù e quello che fa Paolo dello stesso detto, che citiamo nel suo nuovo e alquanto problematico contesto: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prederò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! Non sapete voi che chi si unisce ad una prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno – è detto – una sola carne. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (I Cor 6, 15-17). Qui il valore positivo della sessualità, la sua consustanzialità con la vita, va del tutto a farsi benedire. L'esercizio dell'intera vita materiale è ormai sentito come il desiderio di permanere “nello sporco fossato della storia”. Poco prima Paolo ha condannato alla distruzione il cibo e il ventre, che inducono ad usare il corpo per fini materiali, mentre esso dovrebbe essere per il Signore (6, 13-14). La stessa sorte tocca alla sessualità, che certo è consentita con discrezione entro il matrimonio, ma da cui è sempre meglio rifuggire, in quanto è in ogni caso espressione di “concupiscenza”, come già abbiamo visto (“il foglio” n. 414). «E i due saranno una sola carne»: non è più qui rimando ad un atto creativo, ad un dono di Dio, che contribuisce al benessere delle creature, ma una sorta di trappola e d'inciampo, una fonte di non meglio precisati pericoli, per liberarsi dai quali non c'è che il ricorso all'astinenza e al digiuno, e in casi estremi, al rimedio “consentito ma non comandato” del matrimonio (7, 6; 7, 28). Efesini: la sessualità come simbolo Chi ha assistito ad un matrimonio cattolico conoscerà certo il brano neotestamentario, amato dai parroci, odiato dalle femministe, con cui la liturgia ama esortare gli sposi all'amore e al rispetto reciproco. Ci riferiamo alla lettura del passo, dedicato alla “morale domestica”, dall'epistola agli Efesini, testo tardivo di Paolo o di qualche suo discepolo, come lascerebbero intuire alcune variazioni di stile e di vocabolario e decisivi mutamenti nell'impostazione dei temi da lui già trattati nelle lettere più antiche e sicuramente autentiche. Non ultimo il tema del matrimonio e della sua relazione col legame che unisce la Chiesa al Cristo (Ef 5, 21-33). Lo citiamo qui quasi integralmente, perché sarebbe davvero difficile per noi seguire il filo del ragionamento paolino senza il supporto della sua stessa costruzione logico-simbolica davvero originale e inconsueta. «Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore, il marito è infatti capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi mariti amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. … Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa il Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l'uomo lascerà sua padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento al Cristo e alla Chiesa. Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami, la propria moglie come se stesso e la donna sia rispettosa verso il marito» (Ef 5, 21-33). I problemi, che questo alternarsi di riferimenti alla relazione “marito-moglie” - “Cristo-Chiesa” solleva sul piano dell'etica matrimoniale e su quello della cristologia e dell'ecclesiologia, non possiamo certo qui affrontarli. Possiamo solo notare che il testo presuppone un'analogia tra i due piani, non li pone più in conflitto tra loro come nella lettera ai Corinzi, anzi li lega in una sorta di reciproca e positiva simbologia. Il fine di tutto ciò sembra essere da una parte l'esaltazione del mistero grande di un'ecclesiologia cristologicamente fondata, dall'altra la sacralizzazione-santificazione di quell'unione in una sola carne, che con tanto sospetto aveva preso in considerazione dieci anni prima. In questo senso può suonare sorprendente l'idea di servirsi di un testo antico-testamentario del tutto estraneo a riferimenti cristologici, per evocare il mistero centrale della fede, tanto più che in precedenza tale testo è stato utilizzato per indicare un comportamento contrario alla logica della salvezza cristiana. Proprio questa, però, può essere la ragione di tale sua ripresa in positivo: tentare di restituire quella dignità alla natura del matrimonio, maldestramente messa in discussione in una contingenza storica che sembrava indicare la prossima fine della sua funzionalità vitale. Per altro l'inizio e la conclusione del brano citato ci inducono a sottolineare un altro aspetto problematico delle sue finalità pratiche. Il cuore argomentativo del discorso paolino è centrato sull'analogia teologica del rapporto tra prassi matrimoniale-prassi ecclesiale, ma l'esito normativo dell'intero testo evidenzia un interesse preminente per l'etica familiare. «Le mogli siano sottomesse ai mariti … i mariti amino le mogli»: inizia e conclude Paolo, che proseguirà con le regole di vita familiare: padri-figli, padroni-schiavi, dove mette chiaramente in luce che, anche per lui, come per gli evangelisti, esistono due piani del discorso. Esiste il piano su cui si enunciano le posizioni di principio, gli ideali da raggiungere («non c'è più schiavo e libero; non c'è più uomo e donna» Gal 3, 28) ed esiste il piano in cui si danno indicazioni operative nello spirito e secondo gli usi del tempo, compresi i pregiudizi storico culturali e la legislazione sociale. Conclusione interlocutoria Non ci resta che concludere col bilancio metodologico di tutta questa ricerca esegetica, lasciando agli esperti di pastorale e del diritto il compito di trarne le deduzioni normative, adeguate ai nostri tempi e alle nostre problematiche culturali, sociali ed etiche. Un bilancio che, contrariamente alla complessità del percorso compiuto, è in realtà piuttosto scarno e semplice. I testi della tradizione biblica ed ecclesiastica contengono alcune acquisizioni storico culturali ideali e di principio, che costituiscono il cuore pulsante del loro messaggio e della loro scelta di fede e sono destinate ad operare nei secoli come fine ultimo di un processo storico e spirituale. A queste si accompagnano poi grandi quantità di norme operative, di esemplificazioni, di consigli, di ammonimenti, che sono un tentativo, destinato a costante aggiornamento, di dare concretezza pratica a tali principi ispiratori. Il rapporto tra questi due piani della tradizione è esemplificativamente simile a quello che c'è tra le leggi costituzionali degli stati e le norme positive del diritto e della legislazione politica, o, volendo un esempio più teorico, potremmo pensare alla distinzione nell'etica kantiana tra gli imperativi categorici e le norme contingenti via via da essi dedotte nel corso dello sviluppo delle civiltà. Nel nostro caso il principio ideale potrebbe essere quello enunciato da Gesù, citando Gen. 1 e 2 e le norme contingenti, storicamente variabili, sarebbero le applicazioni ricavatene dai vari sinottici per le loro diverse chiese e quelle ricavate da Paolo, in due momenti diversi della sua vita. Il tutto tenendo per assodato storicamente, esegeticamente e culturalmente che l'applicazione legale tentata dai vari scritti neotestamentari per dare concretezza al vangelo di Gesù, risente fortemente ed è fortemente condizionata dall'imperante maschilismo del tempo in cui Gesù ha tentato di seminare la sua novità. Basti a ciò ricordare che per i discepoli di Gesù, la stessa conclusione legislativa messa in bocca al maestro da Matteo, benché ammetta per l'uomo la possibilità del ripudio in caso di porneia, è considerata troppo dura e punitiva per gli uomini, tanto che «è meglio non sposarsi» (Mt 19, 10). L'attuale normativa ecclesiastica sul tema è evidentemente figlia di tale pregiudizio e, lungi dal difendere la famiglia, persiste nell'atteggiamento di sospetto e di svalutazione della sessualità e delle sue concrete dinamiche. Aldo Bodrato
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