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Le opinioni sul Sinodo si moltiplicano, quasi si sprecano. Alcuni commentatori si concentrano sui temi dibattuti: famiglia e famiglie, matrimonio e matrimoni, ricchezza e miseria della sessualità, sue varie forme e relativi valori e disvalori, comunione sì, comunione no. Altri esaltano le differenti posizioni dei partecipanti, vescovi e cardinali innanzitutto; posizioni spesso inconciliabili, quindi destinate a spaccare la Chiesa o a consigliarle un'estrema prudenza. Non manca l’ola delle opposte curve, che tifano per la vittoria dei riformisti o dei conservatori.

I più critici, ma anche chi non vorrebbe schierarsi, concentrano la loro attenzione sulla maggiore o minore libertà del dibattito. Puro gioco di specchi, una sorta di gibigiana, manovrata dalle solite lobby curiali per abbagliare occhi troppo curiosi? Vera e coraggiosa apertura al dialogo e alla valorizzazione dei carismi e del carattere comunitario della Chiesa? O sua resa suicida al pensiero unico del relativismo borghese e materialista?

Qualcuno ha tentato di fare del confronto sincero e vivace, voluto da Bergoglio, sulla ricerca di una pastorale evangelica della misericordia e del perdono, una sfida all'ultimo dogma. E ha messo in scena un torneo sulla verità e sulla dottrina tra mitrie dorate e purpurei zucchetti, tra scudieri di abati donchisciotteschi e inossidabili cavalieri di Madonne d'ogni colore, tra teologici fioretti di moschettieri del Vescovo di Roma e arcigne guardie del Papa emerito.

A fronte della prima relazione sugli orientamenti dei lavori sinodali, più innovativa sul tema del riconoscimento dei valori umani e spirituali dell'amore eterosessuale e omosessuale, che su quello della regolazione ecclesiastica dell'amore sacramentalizzato, gli schieramenti tra pastoralisti e dottrinalisti si sono ulteriormente polarizzati. Ciò che ha indotto gli estensori della ridiscussa sintesi, da sottoporre a coloro che parteciperanno tra un anno all'ultimo atto di questo Sinodo, a ridurre a poche e scontate ripetizioni dei principi del Vaticano II sul carattere comunitario della chiesa, “popolo di Dio”, e sulla doverosa apertura alla realtà sociale e culturale del mondo moderno.

È così che il fronte, già spaccato, degli opinionisti ha trovato un nuovo terreno di scontro. Da una parte chi recrimina che la chiesa abbia commesso l'imprudenza di recuperare all'uso il pentolone delle riforme, già messo in soffitta da Giovanni Paolo, perché troppo fragile per impedire emorragie di dottrina. Dall'altra chi si duole che essa intenda riciclarlo senza togliergli il coperchio, al fine di evitare che possa riempirsi delle indilazionabili novità che d'ogni parte, dopo il Concio, ribollono.

Ma gli schieramenti non si coagulano ormai solo intorno a tesi estreme: la pentola in cui sono state rimestate le riforme conciliari è, oggi come ieri, un colabrodo. Essa è stata derottamata solo per finire appesa al chiodo come un oggetto di modernariato rimesso a nuovo. Per i più, come sempre, la pentola è o mezza vuota o mezza piena, o già traboccante. Dipende dal tenore delle attese, o anche dal desiderio di rimettersi tranquilli senza rischi di delusioni o timori di novità. In quanto a noi, per trovare un posticino in questa abusata metafora, ci mettiamo tra quelli che ritengono che la pentola abbia appena cominciato a riempirsi e che è possibile sperare che, per quanto lento e graduale, il rinnovamento pastorale e dottrinale della Chiesa possa realizzarsi.

Il Dio biblico non è infatti un Dio raggiungibile attraverso una qualsivoglia sistemazione, dottrinariamente fissa, della sua verità. Il Dio dei cristiani non è il Dio dei filosofi e dei teologi, dei professionisti del sapere. È il Dio di Abramo, di Mosè, di Davide, dei profeti e di Gesù, di quanti hanno accolto nella loro vita storica la sua storica rivelazione, giunta a noi come parola di Dio, racchiusa nella parola e nella storia di uomini. Quindi sempre storicamente incarnata, eguale sempre a sé stessa, non nell'immutabilità della lettera, ma nella fedeltà dello Spirito, che soffia dove e quando vuole, e del Figlio, che non segue i suoi discepoli, imbalsamato in una cassa sigillata dai dogmi, ma li precede vivo sulle strade della Galilea, aperte al cammino verso le genti.

In questo concordiamo da sempre con quanto papa Francesco dice alla sua e nostra chiesa: va riscoperto il vangelo nella sua dimensione di invito alla sequela di Gesù, povero tra i poveri, che esorta a riconoscere la sua presenza e la presenza di Dio tra gli ultimi e a servirli nella loro fame e sete di pane e di giustizia, di lavoro e di rispetto, di amore e di pace. Egualmente apprezziamo la sua scelta di non finalizzare la sua autorità a cambiamenti dottrinali o pastorali, ma a obbligare tutte le componenti della chiesa a misurarsi concretamente e coraggiosamente coi problemi esistenziali, sociali, culturali ed economici dei nostri contemporanei, riconoscendo che sono anche i nostri e che quindi non abbiamo il potere di giudicare, ma il dovere di aiutare e di lasciarci aiutare per risolverli.


 
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