Da sempre i fiumi scorrono verso il mare e nel mare portano quanto incontrano sul loro percorso. In principio trascinano terra, pietre, sabbie: poi anche erbe, rami, alberi, caduti o travolti, carcasse e corpi di animali. A seguire, man mano che pendici montane e collinari, valli e pianure si riempiono di abitanti, ecco sparire tra i flutti anche passerelle e ponti, resti di muretti e argini, infissi e cementi di case, impianti sportivi e turistici, e qualche umano sorpreso e travolto da piene improvvise.
Lo sapevano gli abitanti dei villaggi paleolitici, gli etruschi di Volterra, i romani dell'Urbe dai sette colli, i fiorentini del Ponte vecchio, contadini e pescatori del delta padano. Lo sapevano e hanno costruito dove e come ritenevano possibile difendersi meglio dai capricci del tempo, non sempre con esiti felici. Dove non arrivava un'alluvione ricorrente, poteva arrivarne una eccezionale. Una collina, una roccia solida per secoli, poteva essere corrosa dalle intemperie, insidiata da acque sotterranee. Un vulcano poteva esplodere dopo millenni di relativa quiete. Il clima poteva cambiare.
Gli uomini hanno sempre vissuto con la paura delle alluvioni, delle frane e dei terremoti, delle siccità e delle carestie; hanno tentato di difendersene con le conoscenze e coi mezzi di cui disponevano e hanno puntualmente pagato il prezzo delle proprie imprudenze, dei propri limiti culturali e della ricerca, affannosa, di una vita meno faticosa e precaria.
Da questo punto di vista la nostra situazione oggi non è sostanzialmente diversa, se escludiamo due importanti variabili, che poco hanno a che fare coi capricci della natura, molto invece con la nostra tendenza a sottovalutare la pericolosità dei fenomeni non statisticamente certificati e a considerare irrilevanti le conseguenze delle nostre scelte produttive e abitative sul clima e sul deterioramento del suolo. E qui bisogna avere l'avvertenza di non attribuire a capitalismo e socialismo prassi economiche e industriali diverse nei confronti dei problemi ecologici. L'uno e l'altro in nome del progresso e dello sviluppo materiale dei popoli hanno puntato tutte le loro speranze di successo sullo sfruttamento sempre più affinato delle risorse naturali del pianeta e sull'occupazione concorrenziale di tutti i suoi spazi, anche i più desolati e ostili. Imitati in ciò da ogni singolo appartenente al loro contesto economico e sociale, teso a picchettare e a edificare quante più proprietà riuscisse ad aggiudicarsi.
La crescita irrefrenabile della popolazione, in questi due ultimi secoli, insieme all'affermarsi nell'ultimo cinquantennio dell'economia finanziaria, che ha consentito a pochi individui e gruppi, anche malavitosi, di accumulare capitali monetari abnormi, alla ricerca di impiego speculativo, ha fatto il resto. Più crescono le bocche da sfamare, più cresce il prezzo del cibo; più cresce il bisogno di energia, più crescono i guadagni dei produttori di petrolio e di gas; più cresce il bisogno di suolo agricolo ed edificabile, più cresce l'appetito delle multinazionali di questi settori e il suolo diventa da spazio vitale per anime vegetative, sensitive e razionali, oggetto di sfruttamento economico.
All'Italia e ad altri luoghi di straordinario valore paesaggistico e artistico è toccato il ruolo delle zone residenziali, che in un batter d'occhio, senza equilibrati piani nazionali e comunali, diventano bersaglio della speculazione edilizia legale e abusiva. Da noi come alle Maldive.
Le regioni più fragili dal punto di vista agricolo e più forti da quello turistico, come la Liguria, vedono l'abbandono delle pregiate, ma scomodissime, colture a terrazzamento e l'affollarsi di attività e di costruzioni turistiche in ogni buco della costa, compresi alveo di fiumi e torrenti, per larga parte dell'anno asciutti. E saturati questi spazi, l'assalto cementizio avvia la saturazione di ogni pianoro o spuntone panoramico del primo e del secondo entroterra, capace, in due-tre chilometri piani e lineari, di passare da zero a mille e più metri.
Ora di fronte a tre o quattro alluvioni in un anno di questa regione, possiamo meravigliarci e stracciarci le vesti? Possono i politici passarsi il cerino del vero responsabile dal governo alla regione, dalla regione al comune, dal comune al netturbino di quartiere? Possono le classi dirigenti odierne, burocrati, giudici, costruttori, architetti e geometri, dare la colpa a quelli che li hanno preceduti, se nulla è davvero cambiato col loro subentro? Possiamo noi cittadini di ogni ceto sociale affermare che quanto è stato fatto, negli anni della nostra vita, a danno della difesa del suolo e della nostra tutela dai cataclismi naturali, è accaduto “a nostra insaputa”, senza che anche noi aggiungessimo un nostro personale, abusivo mattone a quelli altrui?
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