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Pubblica carezza

 

«Tutti i libri del mondo non valgono una carezza», nel film Centochiodi, di Ermanno Olmi. Non so se carezza viene dall'aggettivo italiano “caro” oppure dal sostantivo spagnolo “cara”, volto, viso, faccia.

Non importa. La carezza è toccare-sfiorare il volto. È l'opposto dello schiaffo, come il dare la mano è presentare la mano nuda, aperta, disarmata dalla spada. La carezza è linguaggio desiderato e compreso dal bambino piccolissimo, subito dopo l'aria e il latte, tanto quanto dal vecchio al tramonto. E chi di noi non è sempre un bambino appena comparso al mondo? e chi non è sempre davanti al proprio tramonto?

La più famosa carezza pubblica è quella che papa Giovanni affidò alla folla, la sera dell'11 ottobre 1962, facendone uno dei primi atti di quel Concilio, una liturgia cosmico-domestica, un abbraccio tra le generazioni: «Quando tornate a casa, fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa». Sentiamo ancora il tono della sua voce.

Sì, la carezza può essere anche seduzione, inganno e cattura, come il bacio di Giuda riteniamo che sia stato soltanto un segnale per consegnare la vittima ai carnefici. Ma certo non è sempre questo, la carezza. E non riguarda solo il volto. Tutta la nostra pelle è il confine della nostra solitudine. Un'altra pelle che venga, senza ostacoli e distanze, a condividerne il calore e l'attesa, è benedizione. Perché mai ragione e religione, almeno qui tra noi, hanno disprezzato, sospettato, e circondato di filo spinato morale, il fremere della pelle? Perché non hanno capito che anche la pelle, come l'anima, indica che la nostra vita consiste nel cercare, attendere, accogliere, cioè nell'essere re-ligiosa, che vuol dire collegante, tesa ad incontrare altro, oltre, un più vivente? Il profeta David e il mahatma Gandhi, nell'avanzata vecchiaia, lo capirono e lo dissero. La pelle riscaldata e carezzata da un'altra pelle, riscalda il cuore; si salva dal disseccare come terra arida, e dal diventare, senza volerlo, una muraglia chiusa invece di un confine comunicante. Nessuna pelle, il nostro abito più umile e sincero, dovrebbe restare sola, ma potersi aprire come il volto.

Non parliamo solo del sesso genitale, e tanto meno della volontà di possesso che assoggetta per rapire piacere. Tutto al contrario. Diciamo che la carezza, l'abbraccio, la vicinanza, nel totale rispetto dell'alterità libera, sono grazia alla nostra solitudine fisica e interiore, sono sacramento-promessa di quella vicinanza universale a cui confido che ci condurrà il consegnarci e il lasciarci toccare dal mistero aperto della morte, massimo emblema di ogni alterità che viene a noi.

e. p.

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