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420 - Dossier: Je suis Charlie / Je ne suis pas Charlie 7 |
Libertà di espressione
DIRITTO DI OFFENDERE, SÌ O NO? |
Dopo la strage a Charlie Hebdo, alcuni intellettuali italiani si sono affrettati a precisare che certo l’atto era una barbarie, ma... non che se la fossero proprio cercata, però insomma il diritto di offendere non ce l’avevano. Nella cultura francese “diritto” e “offesa” sono termini che hanno confini semantici opposti. Il “diritto” è prevalentemente identificato con la lettera della legge e le sue interpretazioni nei giudizi dei tribunali; dunque un significato circoscrivibile, documentabile e opponibile a qualsiasi cittadino della nazione, indipendentemente dal sesso, dalla razza, dall’età, dalla religione, dalla professione, dall’appartenenza politica, ecc. Invece “offesa” è un significante il cui significato è fortemente personale, e la cui soglia di sensibilità è dipendente dal sesso, dalla razza, dall’età, dalla religione, dalla professione, dall’appartenenza politica, ecc. La satira si incunea tra quei due territori.
Dal 1992 Charlie Hebdo ha affrontato una cinquantina di processi: in media 2,2 processi all’anno. Si potrebbe dire che la giurisprudenza transalpina è stata quasi costantemente confrontata al “diritto” e alla “offesa”. Charlie Hebdoè stato condannato 9 volte e in 37 altri processi è stato assolto. Le condanne sono essenzialmente per il delitto di “injure”, che si traduce appunto con “offesa”, più che con insulto. Il delitto di “injure” – così come definito nel secondo paragrafo dell’articolo 29 della legge del 29 luglio 1881 (legge sulla libertà di espressione) e nell’articolo R 621-2 del Codice Penale – punisce le espressioni oltraggiose, di disprezzo o le invettive rivolte a una persona fisica o morale, con l’intento di ferirla moralmente. I successivi aggiornamenti alla legge sulla libertà di stampa del 1881 hanno riguardato unicamente i mezzi di espressione (dalle gazzette stampate ai social network), non la definizione o i contenuti della “offesa / injure”. Su un piano strettamente giuridico, dunque, l’offesa alla sensibilità religiosa dei cittadini ha ormai confini ben definiti e di cui non si è sentito finora, cioè nei circa centotrentacique anni di convivenza della legge con una pratica religiosa maggioritariamente cattolica, il bisogno di spostarli.
Chi sono gli «offesi» di Charlie Hebdo? Nelle 48 procedure giudiziarie (che sono solo la punta dell’iceberg, dal momento che le citazioni in giudizio sono centinaia e centinaia, ma solo queste 48 sono state considerate ricevibili dalla giustizia francese), i più numerosi a costituirsi parte civile sono i movimenti e i partiti di estrema destra (12 casi), poi editori e giornalisti (8 casi) al pari con le associazioni cattoliche (8 casi), in seguito le associazioni musulmane (6 casi), infine gli “altri”.
In Francia la legge del 1881 rappresenta il contratto minimo a cui i cittadini fanno riferimento, e non sembrano esserci tentativi significativi per metterlo in discussione. Questo contratto minimo è stabilito dalla legge e interpretato nelle aule dei Tribunali. L’Islam di Francia incoraggia i suoi fedeli a ricorrervi, anche per fare pratica di adesione alle istituzioni repubblicane. Ma non chiede di segnare nuovi confini al delitto di “offesa / injure” specifici alla religione islamica. Il che non impedisce assolutamente che vi siano sensibilità che “vanno oltre” e si autocensurano per convinzione o per opportunismo. Infatti non si vedono vignette dileggianti l’islam nei bollettini parrocchiali, e non si raccontano barzellette sugli omosessuali nei corridoi di Yves Saint Laurent. Ma questo è il terreno della coscienza individuale o del politically correct, che non modifica il “contratto di base” di cui sopra.
Un ultimo commento sui discorsi del tipo «sì, ma»: in Francia sono stati messi da parte fino alla grande manifestazione di domenica 11 gennaio, cioè fin quando era necessario testimoniare tutti insieme l’irrinunciabilità del contratto di base sulla libertà di espressione in faccia al terrorismo; poi il dibattito si è ovviamente aperto come altrove. È uno dei comportamenti che fanno di un popolo una nazione capace di unirsi quando la situazione lo richiede e di affermare le differenze quando diventa di nuovo opportuno.
Stefano Casadio
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