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 422 - Dalla Francia segnali di dialogo / 1

 

La questione islamica nel funzionamento sociale

 

Contrariamente alle previsioni e ai timori più diffusi, la strage di Charlie Hebdo ha generato un impulso di reciproco avvicinamento tra società repubblicana e islam di Francia. Difficile dire se l’urgenza di trovare soluzioni concrete ai problemi posti dall’evento terroristico abbia accelerato la riflessione teorica sul dialogo tra le parti, o se i tempi fossero maturi perché l’evoluzione di pensiero in entrambe i fronti si catalizzasse in azioni quotidiane. «Questione di lana caprina», avrebbe detto mia nonna. È certo che l’islam di Francia ha sentito il rischio di un pogrom e che la società civile ha voluto evitare uno scontro fratricida. È interessante che il dialogo e la riflessione si siano aperti su diversi livelli: sociale e societale, politico e geopolitico, filosofico e religioso.

 

Carceri e scuola

Constatato che il reclutamento e la radicalizzazione dei terroristi islamisti è particolarmente efficace nelle carceri, il governo ha introdotto la segregazione carceraria dei detenuti islamisti, finora mescolati ai comuni. Una misura ispirata all’ordinamento italiano sulla detenzione dei membri di organizzazioni mafiose o terroristiche. Da notare che l’invito a riprendere la prassi italiana è stato formulato, nei giorni immediatamente seguenti la strage, dal magistrato Mario Vaudano − fin dalle origini contributore de il foglio e da tempo residente in Francia − che lo fece conoscere negli scambi in redazione, prima di essere pubblicato su altra rivista. Dal canto suo l’islam di Francia ha proposto di moltiplicare i cappellani musulmani nelle carceri, allo scopo di contrastare la radicalizzazione con una predicazione teologicamente più accurata della fede musulmana. Subito accettata in principio, l’applicazione richiede di trovare soluzione a un problema più complesso. I cappellani religiosi sono considerati un servizio dello stato ai cittadini carcerati; devono pertanto poter giustificare un titolo che li abiliti a svolgere l’attività di assistenza carcerale. Tale titolo può essere laico (una formazione di insegnamento del «fatto religioso», come ne esistono in tante università), o confessionale; se per il cristianesimo l’autorità che certifica tale titolo è storicamente nota, strutturata e centralizzata, per l’islam sunnita di Francia tale autorità è più difficile da identificare. Nemmeno il CFCM (Conseil Français du Culte Musulman) riveste questo ruolo; da una parte per la sua origine di “Consiglio” delle alte istituzioni statali, dall’altra perché contestato a vario titolo in seno alla stessa comunità musulmana.

Il secondo fronte su cui si sente l’urgenza di agire è la scuola. Lasciamo da parte per un momento la questione di fondo della scuola francese, impostata sul principio della selezione di élites, e quindi, per matematico scarto, produttrice di una maggioranza di esclusi; il problema è percepito solo da noi, estranei alla cultura transalpina, e non è posto in discussione in Francia, se non nei termini di un ulteriore sforzo didattico e organizzativo per ridurre il tasso di insuccesso scolastico nelle aree meno favorite socialmente. Le difficoltà incontrate nelle classi, l’indomani del 7 gennaio, a trattare degli atti terroristici di ispirazione islamista, si situano nella declinazione di valori repubblicani quali laicità e tolleranzain comunità portatrici di fede religiosa integrista, e specificamente di quella islamica. Significa concretamente che non solo gli insegnanti constatano un diffuso disinteresse nelle ore di «educazione civica» (come la chiameremmo noi), ma sono addirittura apertamente contestati in classe quando insegnano la storia della fede musulmana nelle ore di «studio del fatto religioso» (materia obbligatoria nell’insegnamento superiore) o semplicemente nelle ore di storia. La legittimità degli insegnanti “laici” è dunque negata dagli scolari musulmani, quale che sia l’angolo di approccio al tema della loro religione. In risposta, alcune università hanno rapidamente costituito percorsi di studio atti a fornire una specializzazione storico-teologica orientata alla didattica dell’islam. Parallelamente l’islam di Francia ha presentato proposte di riconoscimento pubblico per facoltà teologiche islamiche atte a formare docenti e imam nel rispetto dei valori repubblicani di laicità dello stato, e di tolleranza non solo per i cittadini di altre fedi religiose, ma anche per quelli di proclamato ateismo. Siamo appena agli inizi, e ancora una volta l’ostacolo principale sembra essere la difficoltà interna alla comunità islamica di riconoscere istituzionalmente una autorità stabile su tali materie.

 

Periferie

La situazione delle banlieues è stata qualificata come «emergenza nazionale» dal governo di Manuel Valls, che non ha esitato a parlare di «apartheid territoriale, sociale e etnico». Una bella soddisfazione per gli imam più esposti nei giorni di Charlie Hebdo, che avevano enunciato questo problema come il primo da affrontare per combattere «insieme allo stato» la radicalizzazione delle cités (i quartieri dormitorio delle periferie urbane). Come strumento concreto di intervento, Hassen Chalghoumi − l’imam di Drancy − aveva proposto di moltiplicare i mediatori culturali (i nostri vigili urbani) nelle periferie più a rischio. È proprio ciò che farà il governo, destinando la quasi totalità dei fondi annunciati (un miliardo di euro sul triennio 2015-2018) a finanziare l’allargamento del servizio civile a questa funzione, con l’obiettivo di accompagnare i giovani delle banlieues verso l’égalité et la citoyenneté (= uguaglianza e cittadinanza). In pratica si tratta di reclutare nel servizio civile dei giovani di fede musulmana, ma di osservanza repubblicana, affinchè sappiano diffondere nelle periferie di popolazione islamica il minimo legale della laicità: rispetto per la fede religiosa unito al rispetto per la legge dello stato e delle sue procedure. Compito delicato e arduo, se si pone mente al fatto che nelle cités musulmane di Francia la shari’ah, anche se non proclamata, costituisce la fonte praticata di diritto pubblico e civile. Nei casermoni della Seine-Saint-Denis o di Venissieux o di Chambéry le Haut (e di tutte quelle aree identificate come ZSP, cioè Zone de Sécurité Prioritaire) una lite tra vicini, un furto, una aggressione, una violenza sessuale, un omicidio, non si denunciano in Commissariato o in Tribunale, ma sono portate al giudizio dei “saggi” della comunità islamica. Quanto questi “saggi” siano autorevoli per la loro conoscenza del Corano e degli hadith, o per la prepotenza della loro famiglia nel contesto tribale della cité, è cosa che non trapela. Che siano i grandi imam a proporre di identificare tali mediatori culturali, la dice lunga sul percorso di accettazione della laicità che è stato fatto dalle élites dell’islam di Francia, ma anche dalla precaria loro rappresentatività di masse musulmane tenacemente integraliste, ancora nella seconda e terza generazione dopo l’immigrazione.

Il tema “societale” (termine privilegiato per esprimere la consapevolezza di appartenere a una stessa società) è dunque quello su cui più rapidamente si sono fatti passi di incontro tra stato e islam. La paura di una guerra civile ha percorso le schiene di tutti i francesi, e le prime più urgenti risposte vanno nella, buona, direzione di esplorare nuovi strumenti di condivisione della cittadinanza. La società francese non è capace, come l’inglese, di legare insieme comunitarismi vari con poche regole di convivenza civile; ha bisogno di un minimo comun denominatore in cui tutti si riconoscono, che sia pure una declinazione ad minima del grande sogno impresso sulle facciate di tutti i municipi: liberté, égalité, fraternité.

Stefano Casadio

(segue)

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