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 339 - CINQUE BREVI ARTICOLI SUL CREDERE/3

 

PERCHÉ HO FEDE?

Perché ho fede? Riconosco che non è stata messa a dura prova, per settant’anni della mia vita. So bene di dover pregare come l’uomo di Marco 9,24. Ma ho un po’ di fede. Ho fede perché i miei genitori, e tutte le persone migliori che ho incontrato, avevano fede, e vedevo con evidenza che la fede dava loro umanità.

Come dice Drewermann, «una umanità esperibile è l’unico criterio di verità per tutte le religioni» (La guerra è la malattia, non la soluzione, Claudiana, p. 141). Certo, ho incontrato anche persone meschinamente “religiose”, magari come semplice abitudine, o usanza, ma anche a volte fino allo scrupolo, alla mania, o all’ipocrisia. Ho sempre potuto distinguere la religione passiva, esteriore, o persino patologica, dalla fede intima e vissuta, senza radicalizzare l’opposizione religione-fede. Vedevo con evidenza che la fede sincera conferiva umanità, era un vivere bene, comunicava dentro e attorno fiducia e pace, impegno generoso per gli altri, scioglieva la minacciosa nube dell’assurdo dell’esistenza. Ho sempre constatato che la relazione con Cristo non diminuisce nessuno, ma tutti sempre matura e vivifica, nonostante il nostro limite. Perciò non ho mai potuto pensare che si possa credere qualcosa «quia absurdum». Mi parrebbe un suicidio della propria dignità: se Dio è assurdo, devi respingerlo. Inoltre, credere perché assurdo sarebbe credere qualcosa, non credere a qualcuno, ed è questo ciò che conta, la relazione (che non è mai assurda), ben più che l’oggetto.

 

***

Oltre agli incontri personali, ho vissuto momenti anche molto brevi di viva intuizione definitiva di un bene dell’esistenza e della realtà. Ho il ricordo profondo, forse a 10-12 anni, di un momento, durante una qualunque passeggiata con dei familiari (non ricordo chi), in cui tutto, attorno e dentro, mi persuadeva pienamente: tutto, in definitiva, è bene. Cioè, qualcosa che chiunque può aver provato e che dà quella che Hans Küng chiama «fiducia di fondo», che è una calma pace inviolabile: può essere scossa, sbattuta, ma non abbattuta, non perduta. Prima, a otto anni, in tempo di guerra, eravamo sfollati, mi ammalai: molti giorni di febbre alta, forse una forma di tifo. Pensai che sarei morto, senza averne paura. Ho visto e patito anch’io l’oscenità infernale della violenza imperante, sistematica, progettata, del potere che odia la vita, e ho sentito concretamente, nelle viscere, che non si può vivere in un mondo che uccide. Ma ho visto anche che questa non è l’ultima parola. Dicevo, davanti alle nuove guerre attuali: disperati, noi speriamo. Sì, la fiducia può anche sembrarti perduta, ma se c’è stata una volta, autentica, ritorna sempre. È la fede che troviamo nei salmi, che attraversa i più tremendi turbamenti. Io non so se reggerei a più grandi prove, ma posso osare di sperarlo.

 

***

Nell’adolescenza (14-15 anni), al di là delle forme religiose e della istruzione ricevuta, ho sentito profondo interesse a conoscere Gesù, per le vie che tutti abbiamo: lettura personale dei vangeli, testimonianze, preghiera, libri, riflessione. Verso quell’età, che ha esigenze razionali, lessi Il sillabario del cristianesimo, di Olgiati: apologetico, certo inadatto ai giovani di oggi, per me fu l’occasione determinante per passare dalla fede infantile alla fede personale. Quali libri hanno oggi i giovani per questa maturazione? Hanno solo (quando le hanno) le occasioni comunitarie, i gruppi giovanili? Sono sufficienti? Temo che rimangano sul fragile piano psicologico.

 

***

Da quell’avvicinamento a Cristo ho ricevuto un’amicizia e un affidamento che sento totale e perpetuo. Posso dimenticarmi di lui, ma spero di no. Davanti a lui e con lui presente ho vissuto ogni momento della vita, anche le incertezze, anche gli sbagli, anche i peccati, e certamente le gioie. La questione Gesù della fede, Gesù storico, parole sue, parole attribuitegli, cristologie varie, mi tocca poco, la sento come questione colta, intellettuale, interessante, ma non esistenziale, non essenziale, non influente sul vivere. Ascolto con un orecchio solo chi ne parla e scrive (anche su questo foglio). Non è lì che si decide la vita. Decisive sono altre questioni: come vivere ora, in questa mia situazione personale, in questa nostra situazione storica, sulle orme di Gesù, seguendo il suo Spirito e la sua parola. Questo importa di più, senza svalutare altri interessi. Più della teologia, della esegesi, dei problemi ecclesiali (con tutto il rispetto), importa la vita giusta, nella pace attiva, per la vita del mondo.

 

***

Nel pensiero teologico, quello che dobbiamo dire, ormai, dopo tante parole sulla debolezza di Dio, è che in lui generazioni di credenti, nei secoli, hanno incontrato un'altra forza da quella che noi vorremmo che avesse, alla maniera della nostra micidiale forza. Dio non elimina il male, non sopprime i malvagi. Quale forza ha Dio, diversa, sorprendente, sconcertante? La forza di non abbandonarci (mentre noi abbandoniamo lui), almeno col suo incessante interrogarci e pregarci (infatti, anzitutto è Dio che prega noi), se abbiamo orecchie per udire la «voce di silenzio sottile», che udì Elia (I Re 19,11-13). Non è la voce di un potere ecclesiastico o culturale, ma la «piccola voce» della coscienza che sta in noi e ci fronteggia come altra da noi. Questa forza silenziosa e mite, possiamo – e anche «dobbiamo» – riconoscerla e dirla, anche di fronte a tutto il male. Perché, se invece crediamo di sapere che Dio è impotente, allora buttiamolo davvero via. Vediamo se sappiamo fare meglio di lui.

Perché dico «dobbiamo»? Non per aggiungere doveri a chissà chi, ma per dire che la regola propria e viva del pensiero ricercante è il dovere di andare oltre l’apparenza, sempre.

 

***

È ovvio che aver fede (rara, mai facile e liscia) non è dire che Dio esiste, ma confidare (avere fiducia) che agisce e agisce bene, anche al di là di ciò che ne vediamo e capiamo. Agisce in me, con me; agisce nella storia di tutti. Posso dire di aver fede, sia se ho un’esperienza vissuta diventata forma interiore, sia se mi affido coraggiosamente a Dio (intendo dire: la verità sempre ulteriore, a cui molta parte dell’umanità dà il nome di Dio) per il futuro, anche discutendo francamente con lui, e nonostante ogni esperienza contraria e pericolo e oscurità. La fede è un pensiero, e anzitutto un’adesione, penetrante la realtà: è intelligenza. Sono dissezioni anatomiche, pur utili come strumenti di lavoro, le distinzioni tra ragione e fede. Distinzioni da non far diventare scissioni, opposizioni, perché si tratta di momenti vivi, uniti nella vita.

 

***

Il lavoro quotidiano di pregare (i monaci lo chiamavano opus Dei, prima che questo termine fosse rovinato), di curare la relazione con Te, la tua presenza in me e la mia dimora in Te, come ogni lavoro – pietra su pietra, giorno dopo giorno, passo dopo passo – ha la pesantezza dell’incompiuto e la ricchezza dell’orizzonte pregustato. Il dono del vivo silenzio ascoltato e assimilato prima di giorno, ogni giorno, è il pane quotidiano con cui rispondi e mi nutri prima che io Ti preghi. Anche il pane richiede fatica, preparazione, ripetizione, eppure la vita è ogni volta nel «pain de ce jour» (come dice bene il Padre Nostro in francese).

Enrico Peyretti

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