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 427 - A Diogneto

 

I CRISTIANI SOSTENGONO IL MONDO?

 

Nel 1436, a Costantinopoli, arrivò Tommaso d'Arezzo, giovane chierico desideroso di studiare il greco. Recatosi al mercato, si accorse che tra le carte in cui era avvolto il pesce che aveva acquistato si trovavano antichi manoscritti.

Così si scoprì un testo fino ad allora sconosciuto, una lettera che si suppone scritta da un autore anonimo come risposta ad alcune domande fondamentali a lui poste da un pagano colto, Diogneto. Il manoscritto passò in Occidente, finché pervenne alla Biblioteca Municipale di Strasburgo. Si possono immaginare le condizioni di questo prezioso codice: i topi avevano rosicchiato la carta, l'inchiostro era divenuto pallido e in qualche punto completamente cancellato. Ma le avventure dell'A Diogneto non erano finite. Durante la guerra franco-prussiana del 1870 la biblioteca fu bombardata dai prussiani e incendiata. Per fortuna due scrupolosi studiosi avevano, qualche decennio prima, ricopiato diligentemente il prezioso testo. Gli studiosi sono propensi ad affermare che l'A Diogneto fu scritto ad Alessandria verso la fine del II secolo.

 

L'anima del mondo

«In una parola, ciò che è l'anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo... L'anima è rinchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; e i cristiani sono tenuti nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono (sunéchousi) il mondo» (VI,1; 7). L'immagine poteva suonare familiare ai contemporanei. Platone e gli stoici l'avevano già usata: l'anima universale era in qualche modo simile alle anime di ogni essere umano. Un soffio divino, diffuso in tutte le membra, anima ogni uomo e similmente anima, mantiene e sostiene il cosmo intero. L'autore dell'A Diogneto trasferisce ai cristiani il ruolo di presenza e animazione che, secondo alcuni filosofi, Dio ha in seno al mondo.

Ma dobbiamo ricordare che, sia pure in forma originale, ci viene proposta una tesi autenticamente cristiana. L'autore traspone, all'interno di quadri familiari alla filosofia ellenistica, l'insegnamento stesso di Gesù. «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore, con che cosa lo si potrebbe rendere salato?... Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte... così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone...» (Matteo 5, 13-16).

«Voi siete la luce del mondo...». Come già per il simbolo del sale, Gesù dice «siete», non «siate». I discepoli sono la luce, lo vogliano o no, grazie alla chiamata. Perciò i discepoli saranno “missionari”. Anche senza grandi discorsi, i discepoli sono la luce che illumina, il sale che dà sapore, il lievito che fa fermentare la pasta, la città sul monte. Quella città alla quale affluiranno tutte le genti (Isaia 2,1-2). Un principio simile, a livello liturgico, lo possiamo trovare già in Esodo 19, 6: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa» (cfr. 1 Pietro 2,9).

Secondo gli apologeti dei primi secoli, Dio ritarda lo sconvolgimento dell'universo grazie ai cristiani, che appaiono come i «giusti» che mancavano a Sodoma (Gen. 18, 24-32). Dottrina simile troviamo nel giudaismo rabbinico: il Talmud insegna che il mondo sussiste grazie al merito di Israele, e più precisamente dei trentasei giusti sparsi per il mondo. Si ritrova la stessa credenza negli ambienti mistici dell'Islam. Il sufismo collega la conservazione del mondo a un determinato numero di giusti; quando uno muore, Dio suscita subito uno che lo sostituisca.

Funzione sacerdotale dei cristiani, preghiera efficace, azione missionaria, santificazione del mondo, ritardo apportato all'ultima parusia: l'immagine «i cristiani sono l'anima del mondo» dice tutto questo. Tutto questo e più ancora, in quanto suggerisce più di quanto non dica e si offre alla meditazione come un tema capace di variazioni indefinite.

 

Noi, piccolo gregge

Occorre sottolineare un altro profondo motivo di interesse. Questi cristiani, che ci vengono mostrati come l'equivalente di un'anima cosmica, sono quei pochi uomini sconosciuti, disprezzati e dispersi in un Impero che risponde alla loro testimonianza con l'odio e la persecuzione. Il canto trionfale del capitolo VI è preceduto da una sorprendente analisi del «paradosso» cristiano. Il capitolo V si apre con un gruppo di proposizioni negative: «I cristiani infatti non si distinguono dagli altri uomini né per regione, né per linguaggio, né per abito. Non abitano infatti città proprie, né usano qualche dialetto inusitato, né conducono una vita fuori dal consueto...». Quindi l'autore manifesta la sua tesi fondamentale, il «paradosso» di questa società spirituale: «abitano in città greche e barbare... ma manifestano la condizione mirabile e realmente paradossale della loro cittadinanza». L'illustrazione che segue adotta con tutta naturalezza un ritmo antitetico: «Abitano nella propria patria, ma da forestieri. Prendono parte a tutto come cittadini e sopportano tutto come stranieri: ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera... Passano la vita sulla terra ma vivono da cittadini del cielo. Ubbidiscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere sono oltre le leggi (letteralmente «vincono le leggi»)». Di qui l'esposizione si fa via via sempre più paradossale: «Amano tutti, ma da tutti sono perseguitati. Sono misconosciuti e condannati; vengono messi a morte, ma ottengono così la vita. Sono poveri e arricchiscono molti; mancano di tutto, ma di tutto sovrabbondano» (V,1-13). Queste ultime righe sono redatte con espressioni simili a quelle che troviamo in 2 Cor. 6,9-13 e 1 Cor. 4,10-13. L'autore intende il ruolo dei cristiani nel mondo come Paolo esprimeva il suo ministero apostolico, opponendolo alla vanità dei Corinti.

Occorre anche notare che, nell'A Diogneto, manca l'affermazione di Paolo «siamo notissimi» (2 Cor. 6, 9). Manca inoltre in Paolo la contrapposizione «Amano... sono perseguitati», espressione simile a quella che troveremo in A Diogneto VI,6: «I cristiani amano quelli che li odiano».

Il capitolo V si conclude con una tragica constatazione: «Coloro che li odiano non sanno dire la causa della loro inimicizia» (cfr. Giov. 15,25).

Una minoranza di cristiani oggetto di odio immotivato e di cieca persecuzione. Come sottolinea Marrou (A Diogneto, Sources Chrétiennes, Edizione Italiana, p. 174), «oggi, per noi che, almeno in Europa, vediamo chiudersi una parentesi aperta nella storia con la conversione di Costantino, per noi che ci ritroviamo, piccolo gregge, dispersi in seno a un mondo ostile o indifferente, di giorno in giorno sempre più profondamente scristianizzato, è particolarmente utile udire una voce che viene da tanto lontano, come quella dell'A Diogneto, proclamare che, benché i cristiani “non si distinguano dagli altri uomini”, tuttavia “ciò che è l'anima nel corpo, questo sono essi nel mondo... Sono essi che sostengono il mondo».

 

Non è dottrina umana

In quale modo una minoranza di cristiani può “sostenere” il mondo? L'autore dell'A Diogneto così si esprime: «La loro dottrina non è certo un ritrovato dovuto a invenzioni e speculazioni di uomini intriganti, e neppure essi si atteggiano a sostenitori di una dottrina umana, come altri fanno» (V,3). Una grossa “tentazione” che troviamo lungo i secoli è quella di considerare la religione cristiana come qualcosa di “utile” per il buon funzionamento della società. Invece nell'A Diogneto ci viene presentata una religione della quale né l'origine né il fine appartengono a questo mondo e della quale, di conseguenza, non possono pretendere di avere ragione le norme terrene.

La prima domanda posta da Diogneto ai cristiani era: «In quale Dio credono?». La risposta viene sviluppata in tutta la seconda parte della “lettera”. È un Dio che «ha fatto scendere dal cielo, tra gli uomini, la Verità, il Verbo santo... e certamente non per tiranneggiarci, terrorizzarci e sbigottirci, ma nella clemenza e nella mitezza... per salvare, per persuadere, non per far violenza: non vi è infatti violenza in Dio» (VII, 4). È il Dio nonviolento del Discorso della Montagna, il Dio che dobbiamo considerare come «colui che ci nutre... non preoccupandoci più del vestito e del cibo» (XI,6). È un Dio che vuole che noi siamo suoi imitatori: «Chi prende su di sé il peso del prossimo, chi benefica di cuore chi ha meno con ciò di cui è più favorito e che da Dio ha ricevuto, costui, elargendolo ai bisognosi, diventa Dio per quelli che ricevono, ed è pertanto un imitatore di Dio» (X,6). Il significato di «imitare Dio» fornisce una risposta alla domanda: «In quale Dio credono?». È un Dio che ama e colma di gioia: «E quando lo avrai conosciuto, pensa di quale gioia sarai colmato! E quanto amerai Colui che per primo ti ha amato!» (IX, 3). Alla «gioia» si contrappone «l'infelicità» dei ricchi e dei violenti: «Perché tiranneggiare il prossimo, voler soverchiare i più deboli, essere ricco e far violenza agli inferiori... questo non è vivere felici» (IX, 5).

Che cosa ci può insegnare oggi uno scritto trovato sul banco di un pescivendolo molti secoli fa? Nel 1965 don Rosadoni, il più “spirituale” dei preti della contestazione, ci aveva presentato quel testo. Ma non eravamo stati capaci di tradurlo in pratica, non avevamo capito che essere «anima del mondo» non comportava “cambiare etichetta”: da “Democristiani” a “Cristiani per il Socialismo”. Non comportava seguire la mentalità terrena e perciò «cambiare il mondo», non comportava «seguire un ideale».   E non conoscevamo l'insegnamento di Bonhoeffer. «Chi si costruisce un'immagine ideale, pretende la realizzazione di questa da Dio, dagli altri e da se stesso» (Vita comune, Queriniana 2012, p. 23). Essere «sostegno del mondo» è il contrario di quello che ci suggerirebbero le «dottrine umane». Significa rinunciare ad apporre il sigillo di “cristiano” alle nostre azioni e alle nostre organizzazioni, essere misconosciuti, poveri, senza timore di subire il martirio dell'indifferenza. Presenza e animazione del mondo, senza avvertirne il peso, anzi senza averne neppure coscienza.

Dario Oitana

 

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