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Nel clima politico in cui è affrontata, è quasi impossibile riflettere con serenità sulle delicate tematiche sollevate dal disegno di legge Cirinnà. Nel nostro Parlamento ormai da anni accade che, quando un'iniziativa legislativa su problemi di rilievo etico, sociale e culturale, dopo estenuanti mesi di trattative giunge al momento cruciale della decisione finale tutto viene rimesso in discussione. Il problema in oggetto, con tutto ciò che esso implica, passa in secondo piano e comincia un gioco al massacro che non ha per obiettivo il miglioramento del provvedimento ma l'indebolimento dell'avversario, interno o esterno.

Tale tattica parlamentare, insieme all'ostruzionismo e all'inflazione dei «voti di fiducia», fa indubbiamente parte delle tattiche politiche d'uso legittimo e comune. Ma osserviamo che non è questo ciò che può interessare chi intende occuparsi di politica non a livello di mercato elettorale e di giochi di potere, ma di orientamento etico e culturale e di concreta trasformazione economica e sociale. Tanto più che proprio tali iniziative tattiche volentieri provocano la degenerazione dell'argomentare etico, sociale e culturale dei sostenitori dei diversi schieramenti. Infatti tali argomentazioni sono esse stesse, troppo spesso, più che la ricerca della soluzione equa e funzionale del problema affrontato, l'enfatizzazione del proprio punto di vista ideologico, l'innalzamento di una barriera retorica a difesa della proprie convinzioni soggettive e delle proprie scelte di parte.

Anche questo è connaturato al dibattito politico stesso. Lo sappiamo, ma sappiamo pure che il peso argomentativo di certi appassionati richiami a valori, principi, diritti e doveri, ha raggiunto limiti di tale sfacciata strumentalità da mettere a rischio la loro stessa credibilità. Valori, principi, diritti e doveri, giocati come jolly pigliatutto, finiscono col perdere ogni specifica identità e ogni significato concreto. Diventano formule magiche o flatus vocis.

Senza ribadire o contraddire nessuna delle posizioni di parte finora espresse ci limitiamo a evidenziare il nocciolo delle questioni poste da un disegno di legge che mira a trasformare le «unioni di fatto» in «unioni civili».

1) Innanzitutto osserviamo che la legge, nel moderno stato di diritto, non ha compiti performativi, non serve cioè a promuovere comportamenti, a creare prassi e realtà sociali inedite. Non mira alla restaurazione dell'Età dell'oro né a costruire il Regno dei cieli., ma, al più, là dove esistono Costituzioni, storicamente nate dal consenso di un popolo, la legge mira alla graduale concretizzazione dei fini sociali individuati dai costituzionalisti di ieri e di oggi. È in quest'ottica che le leggi, approvate dal parlamento e applicate dalla magistratura, risultano finalizzate a regolare la realtà esistente nella sua dinamicità, così che grazie ad esse sia rispettato il comune senso della giustizia, che non è il «buon senso comune», né l'immediato sentire della maggioranza, ma neanche la cosiddetta legge di Dio e di natura. È la normativa giuridica che dà storica voce culturale ed etica al vincolo comunitario su cui si fondano questa o quella società storicamente strutturata e capace di graduali trasformazioni.

2) In secondo luogo teniamo presente che, se fino a qualche decennio fa il matrimonio religioso e in subordine quello civile costituivano la modalità comune di creare una famiglia, oggi non è più così. Le «coppie di fatto» eterosessuali costituiscono ormai una considerevole o forse maggioritaria parte dei nuclei familiari che concorrono a formare la società. Piaccia o non piaccia è necessario tentare di regolarne la presenza sociale, proponendo loro doveri e diritti simili a quelli delle famiglie tradizionali. Discorso analogo è oggi doveroso fare nei confronti delle coppie omosessuali: grazie al superamento dell'odioso pregiudizio sull'innaturalità e sull'immoralità del loro comportamento sessuale, infatti, esse si vengono a trovare in una condizione sociale simile a quella delle «coppie di fatto» eterosessuali. Rispetto a queste inoltre, sulla base dell'attuale legislazione, neppure volendolo, possono sposarsi e ottenere qualche forma di pubblico riconoscimento; per esse «le unioni civili» sono il solo percorso possibile per accedere ai diritti e ai doveri sociali di tutte le altre coppie.

3) Resta a questo punto da esaminare l'ultimo importante problema etico e sociale connesso alla regolamentazione giuridica ed economica dell'esistenza delle coppie di fatto etero e omosessuali, problema che è stato utilizzato per differenziare, punitivamente, le coppie omosessuali coi pretesti più speciosi e spesso infamanti. Si tratta del problema della possibilità di adozione, da parte di un membro della coppia, del figlio naturale già messo al mondo dell'altro membro, sempre che il genitore naturale, rispettivo, sia defunto o privato della patria potestà, o consenziente.

Sappiamo che, allo stato attuale del cammino parlamentare della legge, la soluzione di questo tema, connesso alla tutela del minore, rimasto a carico del solo padre o della sola madre, pur facendo ormai parte di un gruppo sociale pubblicamente riconosciuto, con ogni probabilità verrà rinviata alle calende greche. Ma riteniamo opportuno sottolineare l'incongruenza di questa scelta, determinata da strumentali ragioni partitiche. È evidente infatti che la possibilità di questa adozione completava il processo di normalizzazione delle coppie di fatto, sanando una ferita da sempre inferta al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, valido per gli adulti quanto per i bambini che sono l’anello debole da proteggere. In questo caso infatti il diritto all'adozione non è negata solo agli adulti non uniti in matrimonio, che desiderano esercitarlo in forma attiva, come adottanti, ma anche ai bambini che si trovano a far parte di un nucleo sociale incentrato su una coppia di fatto e a cui molto gioverebbe essere adottato. E ciò è profondamente ingiusto, anche se perpetrato per evitare future ingiustizie.


 
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