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società
428 - Una suggestione dall’ultimo libro di Rampini |
Crisi come passaggio
L’ultimo libro di Federico Rampini L’età del caos (Mondadori 2015), con il significativo sottotitolo Viaggio nel grande disordine mondiale, è in effetti un compendio di tutti i principali problemi che l’umanità ha di fronte: l’economia in crisi, il confronto tra nuove e vecchie potenze, le grandi migrazioni, il problema ecologico, la tecnologia digitale e le sue applicazioni rivoluzionarie, il crescente discredito da cui sono circondate scienza e tecnica nonostante il potere sempre più grande di cui dispongono (o forse proprio per questo). |
Niente di nuovo, ma tutto spiegato con un taglio giornalistico informato e quindi interessante e facilmente comprensibile. Anche l’impostazione è apprezzabile: non una visione apocalittica come spesso capita di leggere in testi del genere, ma aperta a varie possibilità; il disordine, il caos come crisi di passaggio che può condurci ad un’estinzione di massa o ad una nuova civiltà, a seconda delle scelte che sapremo fare.
All’inizio di una nuova epoca
Fra le varie suggestioni che il libro propone vorrei approfondirne una: il paragone tra la fine del medioevo ed il nostro tempo. È appena un accenno all’inizio del primo capitolo, ma molto promettente e perciò provo ad ampliare il discorso. Effettivamente l’epoca in cui viviamo per alcuni aspetti somiglia a quella che in Europa ha segnato il passaggio da un’economia agricola ad una industriale; ora però tutto avviene su scala globale e in modo accelerato.
Negli ultimi secoli del medioevo l’agricoltura servile, nonostante le numerose innovazioni che pure c’erano state, e le risorse (in particolare legname), avevano toccato il limite di possibilità di sostentamento di una popolazione che in Europa si avvicinava ai 100 milioni di abitanti. Da qui carestie (la prima grande del 1315-1317 fece molti morti e debilitò il popolo tanto che la successiva pestilenza del 1347 ridusse di un terzo la popolazione europea), pandemie, rivolte contadine, guerre (dopo il 1500 in particolare di religione), migrazioni. Dal 1300 al 1700 la popolazione europea non è più aumentata. L’Europa ha vissuto in questo caos finché la rivoluzione industriale, non a caso nata in Inghilterra dove la distruzione delle foreste richiedeva per la sopravvivenza di trovare nuove risorse per le costruzioni e per fornire energia, ha fatto fare un balzo enorme alla capacità produttiva, permettendo alla popolazione europea di moltiplicarsi per 5 nei due secoli successivi.
Oggi siamo di fronte a un passaggio simile: il capitalismo digitale globalizzato mostra sempre più difficoltà ad organizzare intorno a sé il sistema economico. Sta venendo meno la sua capacità di crescita e quindi di creare lavoro, le vecchie imprese manifatturiere ormai robotizzate hanno sempre meno bisogno di operai e le nuove informatiche non sono in grado di rimpiazzarle in quanto a occupazione. I futuri 10-12 miliardi di abitanti della terra dovranno inventare altri modi per procurarsi i mezzi per acquistare le enormi quantità di merci prodotte nei pochi grandi centri di produzioni completamente automatizzati. Il nuovo sistema economico emergente sarà diverso da quello industriale almeno quanto quello agricolo medioevale lo fu da quello industriale.
Vecchio e nuovo umanesimo
Anche per un altro aspetto, però, l’alba della società industriale deve interessarci. Il cambiamento economico è stato preparato e accompagnato da una grande rivoluzione culturale senza la quale il solo elemento materiale non sarebbe stato sufficiente: il Rinascimento, l’Umanesimo, l’Illuminismo e la scienza hanno mutato il modo di intendere l’uomo, la società, la natura. Nel mondo contadino medioevale Dio era il Signore, creatore e padrone dell’universo e all’uomo non restava che ubbidirne la volontà espressa dai suoi rappresentanti in terra: sovrani, nobili, papi, gerarchie ecclesiastiche. L’umanesimo ha messo invece al centro l’uomo, la sua volontà, la sua intelligenza, il suo spirito creativo, la sua curiosità, l’osservazione senza pregiudizi della natura.
I problemi che abbiamo di fronte non sono minori di quelli che dovette affrontare il movimento umanista. La scienza sta toccando le basi stesse dell’universo e della vita. Conosciamo il rapporto tra materia ed energia e le particelle elementari che le costituiscono, abbiamo decifrato il nostro codice genetico, stiamo mappando il cervello umano e programmando l’intelligenza artificiale. Tutto questo ci dà un potere enorme e non siamo ancora in grado di gestirlo: ci mancano i riferimenti culturali adeguati, siamo ancora ancorati a quelli elaborati all’inizio dell’era moderna. Sempre più persone, perciò, pensano che abbiamo superato un limite che doveva essere invalicabile e perciò chiedono alla scienza e alla tecnica di fermarsi e sognano un ritorno ai sani e sicuri principi di una volta. Questo però è impossibile perché contraddice l’essenza stessa del genere umano, che non è mai cambiata da quando ha rubato agli dei l’uso del fuoco.
L’umanesimo ha messo al centro l’uomo, ma lo ha pensato come perfettibile e progressivo, illuminato dalla ragione. Ma ora lo possiamo vedere chiaramente: non siamo così. La ragione non ci determina, è uno strumento, certamente importante, a nostra disposizione che usiamo per raggiungere i nostri fini, che però scaturiscono da profondità a lei inattingibili. Occorre accettare questa evidenza: più crescono le nostre conoscenze, più possono essere usate per il bene o per il male. Religioni, filosofie, movimenti politici e culturali hanno cercato di creare l’uomo nuovo, di separare cioè in lui la capacità di fare bene da quella di fare male: i risultati sono sempre stati disastrosi, portando invariabilmente alla negazione della sua stessa umanità, spesso anche fisica. Non resta allora che mutare ancora una volta i nostri parametri culturali, gli schemi con cui interpretiamo la realtà. Solo un nuovo grande movimento come l’umanesimo, facendo ricorso alla nostra creatività e alle risorse profonde che ci hanno aiutato più volte in passaggi cruciali della storia, può ridefinirci in rapporto agli altri e alla natura tenendo conto della realtà che noi stessi stiamo mutando. Potremo così dare nuove motivazioni, slancio, speranza, futuro, al nostro vivere insieme sulla terra.
Questo ci porta a considerare un’altra criticità: anche il rapporto tra individuo e società è da ripensare, perché negli ultimi secoli è aumentata contemporaneamente la coscienza della nostra individualità e quella dell’ampiezza della società in cui è inserita. Ciò rende difficile capire il posto che singolarmente dobbiamo occupare nel mondo e il modo con cui dobbiamo prendere le decisioni collettive, che infatti è assolutamente inadeguato al bisogno. Oscilliamo tra considerare la società semplicemente un ambito in cui l’individuo si muove liberamente, usando tutto e tutti per realizzare il massimo delle sue potenzialità, o come un tutto organico in cui l’individuo è un piccolo ingranaggio insignificante. Ed è forse questa l’urgenza più grande, perché abbiamo necessità di fare scelte fondamentali per la nostra sopravvivenza, ma le idee, le strutture, i sistemi di governo sono stati pensati per un mondo superato, molto più piccolo, semplice, con bisogni e pericoli molto inferiori a quello in cui stiamo vivendo.
Angelo Papuzza
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