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431 - UNA STORIA POCO CONOSCIUTA / 1 |
ITALIANI D’ALBANIA
Nei primi anni ’90 del secolo appena concluso, l’Italia ha assistito sgomenta e incredula allo sbarco, sulle coste pugliesi, di decine di migliaia di immigrati albanesi, spesso letteralmente aggrappati uno all’altro a bordo di vecchie quanto malandate imbarcazioni. Sembrava quasi che un intero paese si stesse svuotando e riversando sulle nostre coste. |
Nei primi mesi convulsi, pochi, frastornati dagli avvenimenti, realmente notarono che in mezzo a quell’umanità disperata in fuga da un regime dispotico e criminale, sulle imbarcazioni o negli uffici dell’ambasciata d’Italia a Tirana, vi erano anche italiani o loro figli dimenticati in quel paese dalla fine della seconda guerra mondiale. La consapevolezza crebbe lentamente, quando la realtà e la storia di questi italiani vennero lentamente definendosi con tutto il loro carico d’assurdità e urgenza.
Questi italo albanesi sembravano giungere, e in fondo arrivavano, da un altro mondo, da una realtà oscura, lontana e misteriosa, come misteriosi sembravano loro, con i loro volti dai caratteri ruvidi, vestiti con abiti fuori moda, con acconciature demodè e pronti a tutto pur di non tornare indietro. Erano solo volti, ombre, corpi di uomini e di donne, di adulti e di bambini provenienti da un passato in buona parte sconosciuto. Risucchiati nell’oblio della storia e lasciati al loro destino in un paese che presto si sarebbe chiuso al mondo, essi erano ciò che restava della sconsiderata politica imperiale mussoliniana e il tragico prodotto della Guerra Fredda.
Dopo l’8 settembre
Dopo il tracollo italiano del settembre 1943, in Albania restavano 130 mila militari del regio esercito e diverse decine di migliaia di civili inviati come funzionari e coloni. Tutti abbandonati a se stessi. Infatti, alle 4 del mattino del 9 settembre le truppe germaniche, guidate dal federmaresciallo von Weichs, con un piano messo a punto solo qualche giorno prima, occuparono l’Albania senza sparare un colpo. Dopo anni di cieca obbedienza e a volte di personale ed entusiastica adesione al regime e al suo progetto imperiale, buona parte delle alte gerarchie, civili e militari, si affrettarono a prendere le distanze dal fascismo ormai in rovina, cercando di raggiungere l’Italia con qualunque mezzo, lasciando irresponsabilmente ai tedeschi il totale controllo del paese. Organizzare una difesa avrebbe voluto dire riconoscere il fallimento di tutta la strategia praticata negli ultimi anni e contemporaneamente dare spazio a nuovi soggetti meno compromessi con il fascismo che avrebbero potuto mettere in discussione equilibri politici e sociali consolidati. Il risultato fu la cattura e la deportazione in Germania di 90 mila militari, mentre altri 40 mila sopravvissero braccati dai tedeschi e dai nazionalisti albanesi (e a volte anche dai partigiani di Hoxha), spesso malati di tifo o di malaria, vagando per lunghi mesi tra le campagne e le montagne senza rifornimenti di alcun genere, mangiando tartarughe, erbe grasse e frutta selvatica, così come rubando nelle case dei contadini. Solo una piccola componente (circa 2 mila uomini) aderì alla lotta partigiana, costituendo il Battaglione Gramsci. A loro volta i civili italiani vennero sottoposti a una dura disciplina militare. Infatti, oltre ai frequenti bombardamenti da parte degli aerei alleati, dovettero fare i conti anche con gli ex alleati che a seguito dell’annuncio del generale Badoglio, consideravano tutti gli italiani dei traditori. Decine di conseguenza furono gli arresti e le esecuzioni nei loro confronti nel corso del periodo dell’occupazione nazista dell’Albania. Eppure il peggio doveva ancora avvenire.
La presa del potere di Hoxha
Con la presa del potere da parte di Enver Hoxha nel novembre del 1944 gli italiani furono definiti e considerati come collaborazionisti e genericamente fascisti e di conseguenza sottoposti in uno stato di terrore. Le principali accuse che venivano loro rivolte erano di sabotaggio e di agitazione antisocialista, che presto si trasformarono in processi farsa e in condanne durissime che a volte giunsero anche alla pena capitale. Aldo Terrusi così racconta il procedimento giudiziario a cui fu sottoposto suo padre quando, nel marzo del 1945, venne arrestato per il semplice fatto di essere stato il direttore della Banca italo-albanese di Valona: «Il processo farsa (tenutosi a porte chiuse), condotto da una commissione militare, nonostante tutte le testimonianze a favore del direttore, tranne una evidentemente prezzolata e assolutamente inattendibile, giudicò Giuseppe (padre del narrante, ndr) colpevole di tre reati: 1) essere fascista; 2) aver rubato i soldi agli albanesi; 3) aver reclutato militari italiani per farli combattere con i tedeschi. La sentenza doveva essere esemplare per dimostrare la forza del potere del nuovo dittatore: dieci anni di carcere duro […] Per quattro lunghi anni la famiglia subì le angherie dei partigiani e il ricatto dei gerarchi della nomenclatura che profittarono della nostra speranza di vedere liberato Giuseppe. Mia madre Aurelia, si rivolse a politici e istituzioni invocando clemenza per quell’uomo innocente, ma la subdola risposta che ricevette fu sempre la stessa: “Lei, cosa può offrire in cambio?”. Al netto rifiuto di Aurelia di qualsiasi compromesso, le condizioni di Giuseppe nel carcere divennero sempre più dure». Giuseppe Terrusi «fu trattenuto prigioniero a Valona e successivamente trasferito a Burrel, un carcere politico, duro e senza speranza, dove morì di stenti il 2 marzo del 1952. Sette anni dopo la fine della guerra!».
Altri non ebbero neanche un simulacro di procedimento giudiziario e furono eliminati con sistemi sbrigativi, come nel caso del direttore dell'AIPA, ingegnere Tarasconi, e il suo vice, geometra Cati, incarcerati a Berat il 28 febbraio 1945. Con il pretesto di trasferirli a Tirana per un regolare processo, furono caricati su un camion e dopo pochi chilometri fatti scendere e fucilati lungo la strada. Anche il clero cattolico subì una repressione durissima e nel dicembre del ’45 fu decretata l’espulsione e/o l’arresto di tutti i sacerdoti e religiosi italiani. Tra questi, nel mese di febbraio del ’46, vi era anche il rettore del pontificio seminario di Scutari, padre Danjele Dajani (albanese) e il vice provinciale dei gesuiti, padre Giovanni Fausti, che, assieme ad altri sacerdoti vennero sottoposti a un processo il cui verdetto previde la condanna a morte dei primi due e di un seminarista e il carcere a vita per tutti gli altri imputati. L’esecuzione avvenne all’alba del 4 marzo del 1946. In totale su 160 sacerdoti 34 furono assassinati o uccisi sotto tortura.
Arresti ed esecuzioni
Come sempre, tale azione repressiva aveva la funzione di giustificare lo stato d’allerta in cui il regime teneva il paese e legittimare le politiche di limitazione delle libertà e di rafforzamento del potere statale contro reali o presunti nemici interni. Di fronte a una tale drammatica situazione da Roma si decise, in accordo con il governo di Tirana, di far giungere un rappresentante del governo italiano con l’obiettivo di definire i tempi e le modalità del rientro dei rimasti. Venne quindi inviato l’on. Mario Palermo, comunista, generale dell’esercito e sottosegretario alla guerra, a rappresentare lo Stato italiano che siglò con il presidente Hoxha un discutibile quanto penalizzante accordo. Quest’ultimo, se da un lato impegnava Tirana a rimandare in patria militari e civili italiani così come a informare le autorità italiane di eventuali arresti di suoi cittadini e ad avviare scambi commerciali e diplomatici tra i due paesi, dall’altro, nel primo punto dell’accordo, affermava espressamente che il rimpatrio era previsto a «eccezione degli specialisti necessari alla ricostruzione del paese», ponendo in tal modo un vincolo che si prestava a qualunque interpretazione da parte degli albanesi. Passarono quindi quattro anni prima che l’Albania autorizzasse il rimpatrio dei tanti italiani rimasti. Un periodo interminabile per costoro, sottoposti a infinite angherie e soprusi.
Eppure, ancora una volta, ristabiliti i rapporti diplomatici nel 1949 all’appello tra i rientrati mancavano ancora circa un migliaio di persone. Questa volta erano coloro i quali avevano sposato un o una cittadina albanese. Per questi casi le autorità di Tirana autorizzavano la partenza solo per il membro italiano, che era costretto a lasciare in Albania i propri figli e il o la coniuge. Questi italiani e queste italiane con le loro storie di spontanea ibridazione culturale e personale si trovarono travolti dagli sviluppi politici rispetto ai quali non avevano alcuna possibilità d’incidere, costretti a dover scegliere nel momento stesso in cui era impossibile, per loro, compiere alcuna scelta. Necessitavano più che mai di una tutela, eppure non ricevettero alcuna attenzione da parte dell’Italia (e meno che mai dall’Albania). La loro situazione fu considerata una questione personale e non una violazione di un diritto umano, per cui le autorità italiane non provvidero mai a stilare un censimento per sapere quanti fossero, chi fossero e dove e in quali situazioni si trovassero e furono semplicemente abbandonati a se stessi. Nel corso degli anni, l’ambasciata italiana continuò a registrare, con scarsa regolarità, le poche famiglie di cui erano a conoscenza il cui capofamiglia era un italiano. Delle donne (che erano la maggioranza) invece si perse ogni traccia. Infatti, unendosi in matrimonio con un uomo di nazionalità non italiana, secondo la legge sulla cittadinanza del 1912, queste donne perdevano la loro nazionalità originaria e di conseguenza il diritto di tutela giuridica da parte italiana, che a questo punto si disinteressò completamente di loro.
Più complicata la situazione quando le autorità albanesi decidevano di trattenere dei minori italiani, figli di padre italiano, nati e cresciuti in Italia. Questo fu il caso, nel 1956, dei due fratelli Rubolino, Roberto di sei anni e Giorgio di nove, quando la loro madre, dall’Italia dove risiedeva, decise di rientrare in Albania per rivedere i suoi parenti. Si imbarcò quindi con i due bambini a Bari, destinazione Durazzo. Al loro arrivo furono accompagnati da alcuni agenti di polizia albanese in una stanza e perquisiti. Poi, racconta Roberto, oggi pensionato, dopo essere rimasto quarant’anni in Albania, attualmente residente ad Asti, «ci dissero di aspettare per poi farci salire su una vettura. C’erano due persone estranee, che mamma non conosceva. Salimmo, senza sapere chi fossero, perché ci aspettavano e dove ci avrebbero portati. Alla partenza l’uomo che guidava si girò e disse a mia madre: “Abbiamo l’ordine di avvisarvi che non tornerete mai più in Italia”. Questo momento mi è rimasto stampato nella mente, perché cambiò completamente il nostro destino. Quando notai che mamma era sconvolta, le chiesi cosa avessero detto, poiché non conoscevo l’albanese. Non mi rispose, le tremavano le labbra. Parlò con l’autista in albanese: “Potete anche dividermi da mio marito, ma nessuno può fermare i miei figli, perché loro sono italiani”. Io conobbi questa risposta solo molto più tardi negli anni». Dopo un anno di pressioni politico-diplomatiche che non sortirono alcun effetto, la questione, da parte italiana, fu lasciata cadere e i due piccoli trascorsero tutta la loro infanzia e adolescenza in un orfanatrofio albanese, convinti per anni che il loro padre fosse morto.
William Bonapace
(continua)
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