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L'utero e il naso di Dio

«Ci sono due modi per un fotografo di rappresentare gli uomini alle prese con gli eventi della loro storia. C'è un tipo di fotografia che comunica compiutamente ciò che il fotografo coglie.

È un'immagine che parla. Dice cose forti e chiare; è molto leggibile, ma è anche frutto di un'indagine finita. È la versione dei fatti del fotografo. E c'è una fotografia non finita, dove chi guarda ha la possibilità di cominciare un proprio dialogo. È un invito a compiere in proprio il viaggio così cominciato» (Paolo Pellegrin in A occhi aperti, mostra fotografica a cura di Mario Calabresi, Ed. Contrasto, Roma 2013, p. 174). La stessa cosa vale per il teologo che voglia offrire ai suoi ascoltatori una qualche rappresentazione del volto di Dio. C'è una teologia la cui parola su Dio si costruisce con solido argomentare logico al fine di coglierne la specifica identità, di definirne, una volta per tutte, sostanza e attributi. È una teologia che dà autorità di maestro a chi la propone e sicurezza a chi la fa propria. Ma c'è anche una teologia che verso Dio tenta di puntare gli occhi interroganti per discernere, nel cammino della vita, la luce della sua rivelazione. È una teologia che si prefigge di indirizzare lo sguardo degli uomini verso una trascendenza che, nella propria irrappresentabilità, mai si lascia oggettivare in un'immagine finita, in un nome identificatore, ma si fa presenza capace di generare relazione.

Spero sia l'ottica in cui viene letta questo abbozzo di ricerca sul tema della misericordia, iniziata nel numero scorso col titolo Il gender di Dio, che qui riprendo per mettere in luce che anche le più ardite e profonde letture spirituali della Bibbia da sempre affondano le loro radici in una lingua intessuta di esperienze materiali e di attente riflessioni sul loro storico divenire. È infatti tutt'altro che culturalmente e teologicamente irrilevante il fatto che il testo principe della fede ebraico-cristiana, per parlare della misericordia e dell'ira, nell'amministrazione della giustizia di Dio, si valga di termini che evocano i fremiti dell'utero materno e le ardenti narici di un maschio infuriato.

Se Dio fosse uno Sputafuoco dai visceri di Madre

Il libro di Giona non è certo il più antico e autorevole della Bibbia, per la sua tarda composizione, per la sua natura midrashica e narrativa, volutamente a-storica, per la complessità ironica della sua impostazione narrativa e la natura anti-istituzionale del suo messaggio. Ma è un libro essenziale per chi si interroga sulla relazione tra la severità richiesta a Dio, nello svolgimento del suo ruolo paterno di legislatore e garante della giustizia, e l'amore verso ogni vivente che lo identifica con la matrice, la madre amorevole che ha generato tutte le cose e se ne fa custode.

Non posso qui dedicarmi a un'esegesi analitica di questa meravigliosa fiaba, problematica e teologicamente davvero intrigante, scritta per noi da un Borges del III secolo dell'evo antico. Tutti conosciamo la singolare avventura del vecchio profeta giustizialista, scovato da Dio nel suo rifugio e inviato ad annunciare a Ninive l'imminente castigo. Tutti sappiamo che Giona tenta di sottrarsi alla nuova missione fuggendo; viene inghiottito da un grande pesce; obbligato a obbedire e quindi pazientemente reintrodotto al mistero della divina misericordia. E se non abbiamo memoria del Giona biblico, fin dall'infanzia custodiamo nel cuore il Giona collodiano che, con le Avventure di Pinocchio, ne riattualizza, per una società fondamentalmente secolarizzata, il romanzo di formazione. Mi limiterò dunque a un esame approssimativo dei termini utilizzati dall'autore per indicare come Dio, facendo leva sulla radice materna del proprio agire educativo, riesca a impedire alla sua paterna passione per la giustizia di trasformarsi in ira e di realizzare, con la ricerca del summus Ius, la summa iniuria.

Giona dunque, vomitato dalla “balena” nei pressi di Ninive, annuncia la prossima distruzione della città, che inaspettatamente comincia a fare penitenza, nella speranza che «Dio muti, si ravveda e freni la sua ira così che noi non moriamo» (3,9). Sappiamo che Dio si pente, Ninive si salva e Giona s'infuria: «Per questo sono fuggito, (perché) sapevo che tu sei un Dio clemente e misericordioso, lento all'ira/longanime, di molta grazia e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato» (4, 2). Il resto segue fino all'invito a riconoscere la compassione di Dio per «la grande città, nella quale sono più di centoventimila persone che non distinguono la destra dalla sinistra e molti animali» (4,11). Una conclusione in cui la misericordia di Dio va ben oltre la giustizia suggerita a Dio da Abramo nel caso di Sodoma (Genesi 18,20-23). Abramo, mosso dall'esigenza di non trattare allo stesso modo giusti e peccatori, non salva la città. Dio risparmia Ninive, priva di “giusti” ma piena di peccatori pentiti, di bambini e di animali.

Tra tenerissimi uteri e infuocate narici

Già sappiamo che Giona, rimproverando a Dio di non aver distrutto Ninive, perché troppo “misericordioso/rachamim”, lo accusa di ferire a morte il suo prestigio di giudice, per eccesso di muliebre sentimentalismo. È naturale che, sentendogli subito aggiungere, «lento all'ira/dalle lontane narici», ci si chieda cosa c'entrano le lontane narici con l'ira e la misericordia. Ce lo fa capire lo stesso autore del libro, allorché mette in bocca al re dei Niniviti l'espressione: «Chissà che Dio non freni l'ardore della sua ira», vale a dire «moderi l'arsura/il fuoco del suo naso». Il libro di Giona parla di narici di Dio, come narratori e poeti parlano della manifestazione fisica dell'ira, descrivendo le froge fumanti dei cavalli da guerra e dei tori. Questo perché i miti come le fiabe fanno delle narici che sputano fuoco la manifestazione visibile e tangibile dell'ira, l'espressione materiale dello sdegno e dell'imminente castigo, che un vero uomo, con tanto di attributi, deve ostentare per atterrire il nemico.

Ora il richiamo simbolico all'utero materno e al fuoco che infiamma le narici/naso, per parlare della misericordia e del potere giudiziale di Dio, non è tipico del tardo libro di Giona. Il suo autore, come prende da II Re (14,15) il nome del suo personaggio, riprende e rilancia con inaudita radicalità il linguaggio e il messaggio di testi profetici e sapienziali più antichi. Il profeta Nahum, a cui il libro di Giona sembra voler rispondere, apre l'invettiva lanciata contro Ninive, al tempo della sua storica distruzione (VII secolo), presentandoci il volto di un JHWH geloso e vendicatore, «terribile nell'ira come Bahal», il signore cananeo degli animali (1,2). Per quanto «longanime/di lunghe narici», il Signore di Nahum non perdona le offese dei nemici (1,3) e, con la sua potenza, inaridisce mari e fiumi (1,4). Già Amos, del resto, aveva utilizzato l'antichissimo archetipo teologico dell'abbinamento di amorevole misericordia e furiosa potenza di Dio. Egli presenta la profezia messa da Dio sulla sua bocca come il ruggito del leone in cerca di preda (3,4) e attribuisce la spietata violenza di popoli fratelli in guerra al loro aver soffocato «la propria compassione / i propri uteri» (1, 11). Il mite Osea mantiene l'archetipo ma ne rovescia gli esiti: «Come potrei abbandonarti Efraim? … Il mio cuore si commuove dentro di me ... / si rimescolano le mie viscere/rechamim. Non farò di fuoco il mio naso» (Osea 11,8-9).

«Ti manderò schiavo dei tuoi nemici … perché si è acceso il fuoco della mia ira / delle mie narici, che arderà contro di voi», annuncia Geremia al popolo di Gerusalemme (15,14), prima della sua caduta. Ma di fronte al lutto di Rachele che piange i suoi figli: «Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? … .Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza / rechamim» (Ger 31,20). Così il ruolo materno di Dio trova modo di campeggiare nei canti del Secondo e del Terzo Isaia: «Può una madre dimenticare il bimbo che allatta, smettere di avere pietà del frutto delle sue viscere?» (49, 15 ). «Come una madre consola un figlio così io vi consolerò» (66,13).

Potremmo continuare con altri profeti, salmi e testi sapienziali, libri storici. Ma è bene chiudere con Esodo 34,6, ripreso da Numeri 14,18-19. Il passo in cui il Signore si autodefinisce, rivelandosi di schiena al suo primo profeta: «JHWH, JHWH, / Dio misericordioso / El rahum e pietoso, lento all'ira / lungo di narici, ricco di grazia / di molta tenerezza» (34,6).

Contro l’antropomorfismo maschilista

A conclusione di questa ricerca sulla contemporanea presenza nella Bibbia del lato paterno e di quello materno di Dio, espressi in una lingua che risale all'oralità preistorica, si potrebbe osservare che la storia della pastorale e della teologia del cristianesimo non ha dimenticato la divina misericordia. Più semplicemente l'ha sottratta al Dio Padre per attribuirla a Maria, trasformando quest'ultima da promessa sposa di Giuseppe a Madonna, da madre amorevole di Gesù crocefisso in terra, a simbolo di celeste misericordia, comunque sottomessa al ruolo di Giudice Ultimo del Cristo risorto. Si potrebbe anche precisare, con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che il monoteismo biblico si fonda sull'impossibilità di farsi immagini di Dio: immagine d'uomo, immagine di donna, d'ogni vivente e d'ogni altra creatura, astri celesti compresi. Precisazione che è indubbiamente opportuna, ma che trascura il fatto che la costruzione teologica e pastorale cristiana, tanto propensa all'esaltazione delle sole virtù paterne di Dio, si è ispirata proprio all'antropomorfismo maschilista dell'immaginario ecclesiastico. E non mi riferisco all'immaginario delle arti e delle lettere. Mi riferisco alle immagini fortemente concettualizzate e sistematizzate in dottrine, norme e precetti, in sistemi teologici complessi e totalizzanti, in dogmi e dogmatiche di straordinario peso e sostanza. Mi riferisco a immagini antropomorfe di un Dio che, nella storia degli uomini, in carne, ossa e capacità decisionali e di comunicazione sociale, finisce con l'essere costretto dalle chiese a rivelarsi, parlare di sé, esprimere il proprio volere, definire quanto è bene e quanto è male, annunciare il vangelo e celebrare la comunione tra i fratelli e le sorelle, solo per mezzo di rappresentanti maschi. E nella versione cattolica del cristianesimo, solo ad opera di maschi celibi, indotti a evitare ogni vissuta relazione con donna. Tutto ciò col risultato di impedire a ben più del 90% dei maschi cattolici e alla totalità delle donne di farsi presenza, reale e non solo retorica, dell'amore paterno e materno dell'“Emmanuele”, il Dio che sta in mezzo a noi.

Aldo Bodrato

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