La profeticità del messaggio di papa Francesco a Lesbo non sta in quanto ha detto, ma in quanto ha fatto. È il fare, la capacità e il coraggio di agire nella realtà del presente, con tutti i suoi limiti e condizionamenti, che rende profezia, parola di Dio, la parola e l'azione di un uomo. La profezia non è parola, intesa a dire cosa accadrà nel futuro o cosa dobbiamo fare e dire perché alcunché accada, quando noi più non saremo a prendercene la responsabilità. Profezia è dire e fare ciò che è possibile e doveroso nel presente, anche se ancora non ci sono tutte le condizioni sociali e storiche per farlo come cosa normale.
In questo senso, commentando il passo in cui Marco ci presenta la piccola tragedia del povero fico maledetto da Gesù perché, non essendo ancora la stagione, non aveva fichi da offrirgli a sollievo della sua fame (11,12-14), il Vangelo ci chiede di «dare frutti in anticipo sui tempi naturali e storici» (A. Bodrato, Il vangelo delle meraviglie, 1995). Il profeta non è colui che si ripromette o propone agli altri di fare cose inaudite, di produrre meloni se siamo soltanto zucche, di realizzare la società perfetta se siamo imperfetti, ma di cominciare a fare oggi quello che possiamo e riteniamo giusto fare, anche se il momento non pare opportuno. Ridurre la profezia a un concreto e storico “dare frutti fuori stagione”, “con qualche anticipo, cioè, sui tempi della storia”, parrà forse a qualcuno una resa ai limiti del presente, ai vincoli della realtà quotidiana, restare invischiati nelle miserie e nei labirinti del contingente. Così la pensava probabilmente Pietro, quel bravo discepolo che alla previsione del Maestro sul prossimo tradimento dei discepoli, giura e spergiura che lui mai lo tradirà. Ma poi non riesce a vegliare con Gesù nell'Orto degli ulivi e, se lo segue fino al cortile del Sinedrio, messo alle strette, lo disconosce. Si fa, a parole e con tutte le migliori intenzioni possibili, con Gesù profeta del Vangelo, impegnandosi a seguirlo dovunque e comunque. Ma di fatto ne diventerà seguace profetico solo quando diverrà portatore operativo del suo messaggio con la sua vita.
Alberto Melloni ha interpretato la visita a Lesbo di Francesco e Bartolomeos come finalmente intercomunione, tra cristiani stupidamente separati, nel corpo di Cristo che è il povero, il profugo, il bombardato. Melloni ricorda anche che qua e là (a Torino da cinque anni un piccolo gruppo assiduo di cattolici e protestanti) i cristiani scavalcano le barriere teologiche e diciplinari erette dalle chiese autocentrate e divise, e prendono insieme, alla mensa di Gesù, il pane e il vino che alimentano il vivere gli uni per gli altri, cioè l'ultima soluzione politica umana che ci è rimasta.
Questa lettura è illuminata: vede che il soccorso, difesa e accoglienza del povero in fuga dal disumano, è un atto che riconosce nella persona umana scacciata e perseguitata, quel Vivente che chiamiamo Dio, fattosi carne nostra per farci vivi come lui: «Quel che avete fatto al più piccolo di questi fratelli l'avete fatto a me». Questo è umanesimo pieno e luminoso, che a nessun altro umanesimo si oppone e si impone, ma è offerto a un’Europa dimentica di se stessa, atrofizzata come corpo senza vita, in un benessere malato, vuoto, ebete, murato. Si compirà il prodigio della risurrezione dell'Europa? Questi pastori delle chiese europee lo credono e lo fanno, e non sono soli nelle loro chiese.
Il gesto profetico compiuto da papa Francesco a Lesbo avrà ricadute profetiche non se moltiplicherà i suoi echi sonori, ma se credenti e non credenti, in primo luogo le comunità diocesane, parrocchiali e di base, i “movimenti” e con esse i singoli lo seguiranno nella scelta operativa di quell'accoglienza che da tempo chiede loro di tradurre in fatti.
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