Gli slogan e il linguaggio usati da Trump durante la corsa alla Presidenza degli Usa sono quelli di un miliardario pieno di sé, con l'autoritarismo nel sangue e il macete dell'anti-cultura stretto tra i denti. Ha messo subito in luce che, per ottenere la guida politica del suo paese, era disposto a ricorrere alle formule più corrive del populismo: «Gli Stati Uniti sopra tutto e tutti», «Il potere deve tornare al popolo, perché è il popolo che ha reso grande l'America». Oggi, che ha toccato la meta, con la scelta dei collaboratori e con i primi provvedimenti, presi senza neppure consultare questi ultimi, fa chiaramente capire che il «noi» è un «io» elevato all'ennesima potenza che sovrasta e ingloba il popolo intero: «Tra gli intelligenti sono il più intelligente; tra i decisi il più forte e coraggioso».
Si è detto nei giorni del dibattito preelettorale che, se avesse vinto, Trump avrebbe dovuto moderare il suo linguaggio, accettando di gestire il potere in accordo con l'insieme delle altre agenzie governative e con le altre forze politiche più moderate. Avrebbe cioè dovuto tenere conto della realtà senza stravolgerla. Erano considerazioni doverosamente prudenti che oggi è ben difficile ripetere. Questo anche se è evidente che, qualsiasi sia il comportamento futuro di Trump, vista la complessità dei fenomeni storici, ogni suo eventuale progetto, come ogni nostra previsione, sono aleatori e facilmente si rovesciano nel proprio contrario o in un inedito imprevisto.
Ciò che fin d'ora risulta chiaro è che le esternazioni del nuovo Presidente, la sua vittoria, le sue prime iniziative demagogiche si presentano pericolose, prima che per gli Usa, uno stato politicamente, economicamente e militarmente forte, per tutti quegli stati che, per la loro storica frammentazione e per un passato di guerre fratricide, hanno trovato nell'Alleanza Atlantica una forma di convivenza pacifica. È questo clima di pace relativa, almeno all'interno dell'alleanza occidentale, che la fittizia ambizione autarchica dell'America trumpiana sta già mettendo in discussione.
Il blocco dell'ingresso agli stranieri originari di molti stati a maggioranza islamica, il rilancio, con grancassa, della costruzione del muro sul confine col Messico, le minacce di iper-tassazione su prodotti tecnologici e industriali lavorati all'estero e concorrenti rispetto ai prodotti statunitensi, le dichiarazioni sulla necessità che l'euro lasci nuovamente campo al dominio del dollaro nelle transazioni sul mercato mondiale, l'auspicio che fallisca presto il progetto della Ue, già messo in crisi dalla Brexit e dalle chiusure politiche dei governi dell'Est, sono un segno inequivocabile del fastidio e dell'antipatia con cui Trump guarda alle democrazie europee e al loro, almeno teorico, progetto di welfare, basato sul rispetto dei diritti dell'uomo.
Non c'è regime, più o meno dittatoriale, che Trump non consideri migliore di queste. Loda Putin, guarda compiaciuto a Erdogan, al presidente delle Filippine, incoraggia Marine Le Pen e gli altri esponenti delle destre nazionali europee, attacca l'Iran per compiacere l'Arabia e sconfessare la politica riconciliatrice di Obama. Fa tutto quello che può per favorire il ritorno al nazionalismo dei vari stati, al fine di instaurare una diplomazia politica, economica e militare basata sui rapporti di forza più che sulla ricerca del diritto. Dopo aver dichiarato che gli Usa devono pensare innanzitutto a se stessi, al proprio benessere e alla propria sicurezza, senza ingerirsi nelle questioni altrui, si trova già, come è inevitabile, a minacciare atti di guerra economica e interventi militari contro chi considera dannoso per i suoi progetti di supremazia mondiale, Iran e Cina compresi, che non sono certo potenze che possono essere provocate senza rischi di guerre mondiali.
Ora molti pensano che la stessa furia scomposta con cui Tramp ha inaugurato la sua presidenza è segno della sua debolezza; che l'aver promesso di essere il presidente di tutta la nazione, per ricadere subito nella ricerca esasperata del consenso dei suoi soli elettori, sollevando l'opposizione clamorosa dell'altra metà dei suoi concittadini, lo destinano a un clamoroso fallimento. In fondo la stessa maggioranza repubblicana alla camera e al senato potrebbe considerare meglio, per le sorti del partito, fare salire alla presidenza il vice-presidente, politicamente molto più raccomandabile. Potrebbe anzi farlo presto, per aver modo di arrivare, dopo i quattro anni previsti dalla costituzione, alle elezione del 2020 liberi dal ricordo ingombrante di un personaggio tanto controverso e tanto sgradito al partito stesso.
È possibile e, forse, ancor più auspicabile. Ma fin d'ora è possibile prevedere che, se le sue sfuriate telefoniche con questo o quel primo ministro del Messico, dell'Australia o della Germania, se i suoi tweet al fulmicotone, dove attacca con coloriti insulti personali questo o quell'avversario politico, sono folklore, il discredito con cui colpisce il prestigio nazionale e internazionale della potenza politica che può essere considerata, nel bene e nel male, quella centrale nel mantenimento dell'equilibrio del mondo, la rincorsa all'emulazione indotta nei politici di basso cabotaggio in paesi di basso spessore democratico e di serpeggiante cesarismo, sono già oggi potenzialmente devastanti. Non solo per i rapporti tra le nazioni, ma anche tra gli uomini e la loro stessa possibilità di vita salutare sulla terra, visto che anche prime le iniziative prese da Trump e dai suoi ministri contro le già fin troppo prudenziali misure ecologiche di Obama.
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