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Il 25 marzo saranno 60 anni dal Trattato di Roma, che diede vita alla Comunità Economica Europea, diventata poi con Maastricht, nel 1992, Unione Europea. Si spera che la ricorrenza non si limiti a esaltazioni retoriche del passato, ma affronti con coraggio un presente poco rassicurante e un futuro ancora più incerto. Di fronte al prepotente ritorno dei nazionalismi è possibile uscire dalle pericolose secche in cui si è incagliato da tempo il processo di unificazione? Senza alcuna illusione o ridicola pretesa di completezza proviamo a indicare qualche tema che potrebbe essere sviluppato per avere più integrazione, e non meno, come chiedono molte forze politiche che mirano alla liquidazione dell'Unione stessa.

Primo: la messa in comune del debito pubblico. Cioè la creazione di un ministro del Tesoro europeo che possa emettere buoni del tesoro federali, garantiti dall'Unione, sottoscritti, almeno in parte, dalla Banca centrale e successivamente messi a disposizione dei bilanci dei singoli stati. Una graduale sostituzione del debito nazionale con un debito europeo.

Secondo: far emergere partiti europei con leader europei, superando le gabbie nazionali che impoveriscono e limitano le rappresentanze democratiche e favoriscono il consolidarsi di burocrazie autoreferenziali. Il Parlamento e la Commissione dovrebbero vedere rafforzato il loro ruolo, che in questi anni invece si è ridotto di fronte al prevalere di paralizzanti politiche intergovernative (decisioni prese dai capi di governo o dai ministri dei vari stati, pressati da interessi localistici).

Terzo: affrontare il problema della difesa europea, nella prospettiva di un esercito comune, con qualche primo esperimento, perché no?, di difesa nonviolenta. Riprendere il discorso interrotto nel 1954 adì opera dei francesi che impedirono la costituzione della Ced (comunità europea di difesa). De Gasperi ebbe la notizia a pochi giorni dalla morte: «Vedeva lucidamente le ripercussioni di lungo periodo che il no francese alla CED avrebbe avuto  su tutto il processo d'integrazione...era in gioco non solo il progetto della Ced... Lui voleva che l'idea europea fosse un dato non aggiuntivo ma costitutivo della politica e identità italiana» (G. Sangiorgi, De Gasperi, uno studio, Rubbettino 2014, p. 17). Tema di grande attualità di fronte agli atteggiamenti di Putin, in verità provocati anche dall'espandersi della Nato verso est, e in rapporto alle recenti dichiarazioni isolazioniste di Trump. La costruzione di un esercito comune, oltre a mitigare la soggezione verso gli Usa, avrebbe anche il non secondario vantaggio di ridurre e rendere più efficienti le spese militari complessive dei singoli stati.

Quarto: l’immigrazione. Problema di durata indefinita, altro che emergenza. Che non si risolve con ambigui accordi con la Turchia e, più recentemente con la Libia, affinché facciano da argine preventivo al passaggio del Mediterraneo costringendo i migranti in lager disumani e probabilmente alimentando col flusso di aiuti, governi corrotti e malavita locale. Occorre invece dare finalmente concretezza a sistemi legali di immigrazione, cioè aprire quei corridoi umanitari di cui molto si parla, ma per i quali finora, se si eccettuano lodevoli eccezioni per numeri necessariamente limitati, come quelle della Chiesa Valdese e della Comunità di S. Egidio, nulla è stato fatto. «Abbiamo bisogno di canali d’accesso legali per le persone che necessitano di protezione», ha autorevolmente ribadito J. Gauck, presidente tedesco, in un’intervista, negli ultimi giorni del suo mandato.

È certamente anche possibile aiutarli “a casa loro”, se una casa ce l’hanno… con un’analisi molto accurata delle modalità di aiuto, perché le risorse non finiscano in mani sbagliate. Ma sapendo anche che la spinta a scelte disperate, al netto della povertà e delle guerre, è talora determinata dalla invivibilità di certi ambienti, divenuti tanto più insopportabili per effetto della comunicazione globale. Esistono stati, come l’Eritrea, da cui è impossibile uscire legalmente e in cui i maschi sono costretti a fare il servizio militare praticamente a vita e le femmine a sposarsi bambine. Si tollerano, se non si favoriscono, antiche usanze familiari e norme tribali. La scelta di fuggire, in tali casi, è incontenibile. All’arrivo si apre tutto il discorso della distribuzione tra i vari paesi, finora osteggiata, in vario modo e in diversa misura, dai governi nazionali e quello ancor più grave dell’integrazione (culturale e lavorativa), che non può avvenire proficuamente se non con una distribuzione di piccoli numeri nei vari territori. Per l’Italia si vedano, ad esempio, i criteri seguiti dalla regione Toscana.

Il discorso porterebbe lontano e la complessità aumenterebbe. Molto resta ancora da fare per l’integrazione culturale dei popoli europei, in cui dovrebbe affermarsi una lingua comune (che non può che essere l’inglese), insegnata in parallelo con le lingue nazionali, dalle scuole elementari, come avviene da molti anni nei paesi del nord Europa. È altrettanto necessario che il cammino unitario riparta dal cuore dei paesi fondatori, non necessariamente i sei iniziali, ma certo non molti di più. Forse i diciannove della moneta unica sono già troppi per pensare a un cammino proficuo in questi tempi.

È utopia tutto questo? Probabilmente sì. Ma l’alternativa è la disgregazione della costruzione europea, che non si fermerà al ripudio della moneta, ma ritornerà alle economie e agli stati nazionali aprendo il futuro a ogni più tragico scenario. Dobbiamo quindi fortemente sperare, con Mario Draghi, che euro money e European Union siano «irrevocable and irreversible».


 
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