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teologia
440 - L'insistita denuncia del pericolo della tentazione satanica |
Il diavolo di papa Francesco
Non è raro che nella predicazione di Jorge Bergoglio, là dove vuole denunciare la presenza delle forme peggiori di male, emerga la figura del diavolo: «il Tentatore, il Divisore, il Contraffattore». |
Sorprende che, nella lingua pastorale e spirituale di un papa tanto controcorrente e innovatore, persistano residui di una visione popolare della fede tanto antica e fondamentalmente inattuale. Anche in questi giorni, nella prefazione a un libro-testimonianza sulle sofferenze fisiche e psichiche, causate dagli abusi sessuali di preti sui ragazzi affidati alle loro cure, lo abbiamo sentito parlare di «tale diabolica perversione dell'annuncio dell'amore salvifico di Dio da non potergli attribuire che un'origine diabolica».
Del resto altre volte Francesco ha paragonato la pedofilia dei sacerdoti alle messe nere, modello emblematico di quella deformazione dello spirito che induce alcuni a scambiare Dio per Satana, rendendolo un idolo al loro stesso servizio. Il che ci fa capire perché Bergoglio non voglia rinunciare a utilizzare il rimando al diavolo, come origine, o almeno come rappresentazione simbolica, di tutti quegli atti malvagi a cui l'uomo è tentato dalla deformazione ideologica della propria immagine di dio ben più che dai limiti sensuali della propria corporeità. Anche per questo debbo ammettere che, persino sulla figura del diavolo, il nostro anziano gesuita di periferia (ha ben cinque anni più di me!) può insegnarci qualcosa.
Ierofanie diaboliche
Ogni teologo sa che i Padri della Chiesa, i Dottori Medievali, i Maestri del Rinascimento, i teologi post-tridentini e post-vaticani, insegnano che il Diavolo è presente nella storia biblica della salvezza come colui che mette il naso nei rapporti tra l'uomo e Dio. Dal racconto genesiaco della caduta e della cacciata (Gn 2-3), al prologo fiabesco del libro di Giobbe (Gb 1-2), alla narrazione sinottica della tentazione di Gesù nel deserto (Mt 4, 1-11), sempre il diavolo interviene per provocare una sorta di cortocircuito malevolo tra uomo e Dio. Pochi, però, si rendono conto che nulla è più lontano dal Satana antico e neotestamentario dei mostri lascivi e spaventosi delle tentazioni di Sant'Antonio, dei carnefici spietati degli inferni danteschi, dei demoni dei vari Giudizi universali. È stata la predicazione rivolta al popolo dai monaci, dai parroci e dai monsignori a fare del diavolo, già tentatore delle spirito immortale, un tentatore della carne mortale. In realtà, se davvero il diavolo decidesse mai, di prendere forma nera di gatto, di caprone in calore o anche di donna ignuda, mai potrebbe costituire un vero pericolo per l'anima dell'uomo, perché mai potrebbe gareggiare con l'ineguagliabile idea di bellezza e di bontà a cui la nostra mente dà vita quando pensa Dio. Il diavolo, per accedere alla nostra mente, in qualche modo, deve presentarsi come un’intelligenza superiore, un «angelo di Dio», una sua «immagine», un «idolo». Uno che, di riffa o di raffa, sa stare a tu per tu col divino e con l'umano.
Lo stesso processo di mitologizzazione con cui il pensiero ebraico e quello cristiano accompagnano la fissazione emblematica dei personaggi fondamentali della propria storia religiosa, lo evidenzia a cominciare dalle narrazione apocrifa della preistoria angelica, nata dalla necessità di far precedere, alla caduta della coppia umana originaria, quella di Lucifero e compagni (Libri di Enoch). Anzi, già il mito genesiaco del serpente tentatore riesce a suggerirci che a essere tentati dal più insinuante e «astuto degli animali» non furono solo Eva e Adamo, ma attraverso di loro anche Dio. Il che è tanto vero che la cacciata dei due dall'Eden viene giustificata mettendo sulla bocca di Dio queste parole: «Ecco l'uomo è diventato come uno di noi nella conoscenza del bene e del male. … (Cacciamolo) … che non prenda dell'albero della vita, ne mangi e viva per sempre» (3,22).
Inquisitore e millantatore
A ben vedere, però, tale possibilità di rapporto dialettico di Satana con Dio, di mediazione angelico-demonica tra cielo e terra, è anche meglio illustrata dal libro di Giobbe. Nel prologo fiabesco, che introduce la disputa tra “l'iper-paziente” e gli amici, Satana fa parte «dei figli di Dio» (1,6), con l'incarico di verificare la rettitudine degli uomini e la sincerità della loro fedeltà. È lui che insinua in Dio il sospetto sulla virtù interessata di Giobbe e che, su incarico di Dio, lo tormenta fino all'esasperazione e alla rivolta. Satana dunque è qui innanzitutto tentatore di Dio e solo dopo, per ordine di Dio, tentatore dell'uomo. Non per nulla Giobbe, che lo capisce, non «dice male» di Satana, ma protesta violentemente con Dio, e ben a ragione il “Padre nostro” evangelico chiude con la supplica «non ci indurre in tentazione» (Mt 6,13; Lc 11,4).
Oggi il nostro buon senso cristiano resiste alla proposta di far proprio quest'ultimo frammento di preghiera, anche perché, attribuita direttamente a Gesù, suona particolarmente provocatorio e, perciò, si è proposto di sostituirlo con «non abbandonarci alla tentazione». Il che non configura una falsificazione del testo, ma ne comporta una indebita deproblematizzazione. Se questa preghiera infatti fa parte, come parrebbe logico, delle «parole stesse di Gesù», degli ipsissima verba Jesu, usciti dalla sua bocca e messi per scritto dagli evangelisi, dovrebbero essere accolte come particolarmente significative. Sarebbero segno della sua volontà di trasmettere a noi i frutti dell'esperienza da lui stesso vissuta nei giorni della sua missione a partire da quello della vocazione, quando, dopo il battesimo al Giordano, venne «spinto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Mc 1,12-13; Mt 6,1-11; Lc 11,1-13). I frutti, intendo, di un'esperienza che al suo centro ha la volontà di “convertire” dalla radice la visione di Dio propria dell'ortodossia mosaica del sinedrio gerosolomitano d'allora.
Il fatto poi che il vangelo di Giovanni taccia su questa esperienza di vocazione-tentazione, che neppure accenni all'analogo dramma del Getzemani, che non riporti un solo versetto del «Padre nostro», non sminuisce il valore di quanto Matteo e Luca ci suggeriscono col loro racconto. Col «prologo celeste» (1,1-18) Giovanni ha già risolto la questione della superiorità dell'insegnamento teologico di Gesù rispetto a quello di Mosè e il riferimento a eventuali tentazioni o dubbi di Gesù nella sua storia terrena stanno alla sua cristologia come il fumo negli occhi. I Sinottici invece devono ricavare l'originalità della visione etica e teologica di Gesù rispetto a Sadducei e Farisei dalle concrete vicende terrene della sua predicazione, passione e morte.
Ecco perché essi colgono l'occasione della prima manifestazione pubblica della missione di Gesù per isolarlo digiuno nel deserto “quaranta giorni e quaranta notti” (Mt 4,2; Es 34,28) e disporlo a vivere un'esperienza di confronto col trascendente, ricca di continui rimandi alla vocazione di Mosè e ai suoi incontri col divino nel deserto e sui monti del Sinai e del Nebo (Dt 34,1-4). Solo che mentre gli incontri di Mosè lo guidano a riconoscersi come portavoce di un Dio che, nella sua assoluta potenza, sfama, disseta, protegge a oltranza i suoi prediletti e dona loro il dominio sulla terra, in cambio della loro obbedienza (Sal 91), Gesù vede in queste stesse caratteristiche i segni specifici dell'idolo satanico, del falso dio, che promette successo mondano in cambio della rinuncia alla libertà dell'uomo e alla sua umana responsabilità.
Da Pietro a Francesco
Non penso di forzare la lettera e lo spirito della Bibbia ebraica e di quella cristiana, se concludo questa riflessione affermando che nei vangeli sinottici Gesù è presentato come colui che affronta e vince la sfida, relativa alla scelta del Dio e dell'uomo a cui intende dare volto e carne con la propria vita. Proprio come non credo di forzare la mano al nostro «buon Francesco» quando osservo che l'insistita denuncia del pericolo della tentazione satanica ben si può comprendere come denuncia del possibile legame che intercorre tra l'eccesso di severità pastorale di certi ambienti curiali e cardinalizi e talune venature di satanismo teologico.
Del resto Francesco è papa, proprio come Simon-Pietro, primo papa e primo apostolo che si oppone alla vocazione chenotica di Gesù (Mt 16,21-23), che, altro Giuda, lo tradisce, quando si rende definitivamente conto che Gesù rifiuta di essere il messia di un dio, pronto a usare le sue «legioni angeliche» per salvarsi da ogni pericolo. Rifiuta il messianismo populista, per diventare il Cristo di un Dio che si lascia processare e schiaffeggiare (Mt 26,51-54,69-75), pur di evitare che il suo regno possa essere confuso col «regno di questo mondo» (Gv 18,36).
Di fatto poi nessuno dei quattro vangeli passa sotto silenzio l'imbarazzante testimonianza che proprio Pietro ha frainteso e tradito, la scelta cristologica e teologica di Gesù. Anzi tutti e quattro ne fanno il prototipo di coloro (papi, cardinali, vescovi, religiosi e semplici credenti) che, fraintendendola e tradendola, hanno potuto, possono e potranno regredire da uomini di Dio a portaborse di Satana. Che sia proprio questo ciò che il buon Francesco vuole ricordarci col suo rifiuto di rottamare Satana e di accettarne l'inevitabile secolarizzazione?
Aldo Bodrato
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