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teologia
Dio viene a incontrarci nella storia
I versetti di Matteo (5,3-12) e di Luca (6,20-23) in cui Gesù annuncia le beatitudini sono tra i più noti del Nuovo Testamento. Conosciuti, ma poco vissuti e diversamente interpretati. Eppure proprio il loro carattere paradossale e la loro formulazione sorprendente favoriscono l'ipotesi che all'origine ci sia proprio un autentico insegnamento di Gesù. |
Le "beatitudini" di Matteo si distinguono da quelle di Luca. Anzitutto per il numero che passa da quattro a nove e dal fatto che Luca (6,24-26) fa seguire al testo i corrispondenti «guai» (ouai). Ma ancora più importante è il cambiamento di tono. I «poveri in spirito» di Matteo non sono più i «poveri» di Luca. E gli «affamati e assetati di giustizia» di Matteo non sono gli «affamati» puri e semplici di Luca. Le beatitudini di Matteo non sono più rivolte a infelici nelle loro sofferenze ma a cristiani animati da certe disposizioni spirituali. Perciò aggiunge alle beatitudini corrispondenti a quelle di Luca altre cinque beatitudini. La tendenza, da parte di Matteo, a "spiritualizzare" le beatitudini porta a ricostruire il testo basandosi sulla versione di Luca. Sarà seguita tale ipotesi come la più probabile.
Adesso, prestissimo... o nell'aldilà?
Gesù stabilisce uno stretto legame tra il momento presente e l'avvento imminente del regno. Tale è la prospettiva in cui le beatitudini ricevono il loro significato originale: i poveri e i diseredati sono beati perché l'imminente instaurazione del regno di Dio metterà fine alle loro sofferenze. Luca si rende conto della necessità di una dissociazione. Nella seconda e terza beatitudine aggiunge l'avverbio nun (ora): «Beati voi che ora avete fame... che ora piangete». Questo avverbio introduce nel testo un'opposizione tra il tempo presente e il tempo della salvezza che mal corrisponde al primo significato delle beatitudini in cui il tempo presente appariva come il tempo della salvezza. Quasi certamente è Luca il responsabile dell'inserzione di questi nun.
Ma sorge una nuova questione. In quale momento si produrrà il capovolgimento che le beatitudini annunciano? In occasione della parusia o nel momento della morte di ciascuno? L'esempio più chiaro è costituito dalla parabola del ricco e di Lazzaro in cui il momento della sofferenza dei poveri e dei piaceri dei ricchi si identifica con la durata dell'esistenza, mentre il capovolgimento si colloca dopo la morte individuale: «Ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è qui consolato e tu sei tormentato» (Luca 16,25). Questa la tesi di Luca. Era questo il pensiero di Gesù? Il Dupont (nella sua monumentale opera Le beatitudini) propone la seguente interpretazione: «Dal momento che per Gesù le beatitudini sono l'annuncio del prossimo avvento del regno di Dio, l'"ora" avrebbe dovuto necessariamente essere collocata nel secondo membro delle sentenze: i poveri, gli afflitti, gli affamati sono beati, perché ora è arrivato il tempo della loro consolazione. Con il ministero di Gesù il regno si è fatto talmente vicino che si può parlare come di un'"ora" o di un "oggi". Luca invece non dice così. Egli inserisce l'"ora" nel primo membro e non nel secondo: "Beati voi che ora avete fame perché sarete saziati (un giorno, più tardi)". Così nel pensiero di Gesù, "ora" si sarebbe opposto alla situazione precedente: finora voi avete sofferto ma il regno di Dio è vicino e con esso le vostre miserie finiranno... L'ora di Gesù è un già-ora; l'ora di Luca è un ora-ancora, quello del tempo della prova che si prolunga, poiché il tempo della salvezza non è ancora giunto».
E che senso avrebbe avuto per Gesù rinunciare al suo normale modo di vivere e chiedere ad alcuni dei suoi discepoli di fare altrettanto se non avesse creduto che il Regno sarebbe venuto presto? E perché avrebbe dovuto fare dell'avvento del Regno l'oggetto della breve preghiera insegnata ai discepoli? Proprio l'espressione «regno di Dio», presente e futuro, incarna la tensione tra il "già" e il "non ancora". Ma tale espressione forse può essere una descrizione, non una spiegazione. E Gesù non ha mai usato un'espressione del genere per descrivere la strana giustapposizione di Regno futuro e Regno presente. Come osserva il Meier, «non abbiamo alcun modo per essere sicuri che egli abbia mai considerato questa giustapposizione o l'abbia ritenuta un problema. La nostra preoccupazione riguardo al principio di non contraddizione potrebbe essere accolta con uno strano sorriso dal Nazareno e dal suo uditorio».
Felici i poveri, infelici i ricchi
Il tempo di Gesù era il tempo di una possibilità meravigliosa offerta agli uomini che ascoltavano la Buona Novella: le promesse di felicità e di salvezza fatte in altri tempi dai profeti vengono adempiute ora, «oggi» (Luca 4,21). «Oggi» i poveri sono felici. Poiché se dico «Beato te», intendo dire «mi congratulo, mi felicito con te, ti faccio i miei complimenti per una cosa buona che ti è capitata». Le beatitudini non sono né una promessa né un augurio, ma una formula di felicitazione. I poveri «sono beati» e lo sono effettivamente nel momento in cui viene loro detto. Vostro «è» (non «sarà») il regno di Dio.
Le felicitazioni ai poveri si fanno «ouai», guai, compianto per i ricchi. «Guai» non è una maledizione o un grido di esultanza del vinto che si fa vincitore! È invece un grido di dolore, un «ahimè», un lamento di compianto che Gesù rivolge ai ricchi, a chi si crede sazio, gaudente, adulato e rispettato. Gesù li avverte di un male di cui, poveretti, non si rendono conto. Gesù vuole salvare anche i ricchi, i gaudenti, i satolli, coloro di cui «tutti dicono bene». La loro ricchezza è un misero surrogato di consolazione. Il loro godimento, la loro sazietà li fa sentire autosufficienti. Il consenso di cui godono li fa drogati di vanagloria (Fausti).
Sul tema «Felici i poveri, infelici i ricchi», spunti interessanti ci vengono offerti dai padri della Chiesa. Così si esprime Basilio di Cesarea commentando la parabola del "ricco stolto": «Chi non proverebbe compassione per un uomo così ossessionato, un uomo che delle proprie terre si ritrova a ricavare solo ragionamenti logoranti? ... Non diversamente dai pazzi, che vedono di fronte a sé non le cose che realmente hanno davanti agli occhi, ma quelle che la loro infermità loro rappresenta, così la tua anima, prigioniera dell'avarizia, vede solo oro e argento ... Non è ridicolo tutto ciò?». Nella "Omelia contro i ricchi" (ma si potrebbe intitolare "omelia nei confronti della povertà dei ricchi") così leggiamo: «Vieni a dirmi che tu pure sei povero! Sai che faccio io: ti do proprio ragione. Poiché povero è colui che ha bisogno di molte cose».
Un esempio dell'infelicità del ricco viene offerto dall'episodio del "giovane ricco" che «andò via triste, perché aveva molti beni» (Matteo 19, 22 e paralleli). Così, alla luce dell'antitesi tra "avere" e "essere", Fromm commenta: «Nel N.T. viene premiato con la gioia chi rinuncia al proprio avere, mentre il destino di chi resta aggrappato ai propri beni è la tristezza». Gesù domanda ai suoi discepoli: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato (usterésate) qualcosa?». Risposero: «Nulla» (Luca 22,35). Il verbo è lo stesso usato (nella versione di Marco) per il ricco oggetto dell'amore («lo amò») di Gesù: «una sola cosa ti manca (en se usteréi)» (Marco 10, 21). Ai poveri nulla manca, ai ricchi manca la capacità di donare.
Nei sinottici, l'episodio del "ricco triste" è seguito da una promessa ai discepoli: «Chiunque avrà lasciato… riceverà cento volte tanto» (Matteo 19,29; Marco 10,29-30; Luca 18, 29-30); Marco e Luca aggiungono «nel tempo presente (en to kairò touto)». Luca dice «molto di più». Marco aggiunge «insieme a persecuzioni», mentre tutti distinguono il presente da un futuro in cui avranno la vita eterna. Il detto proclama una situazione nuova e felice. Fin da ora le perdite sono abbondantemente ricompensate. Ciò che il vangelo propone, ciò a cui conduce il discepolo che ha preso le distanze dal suo passato e dai suoi beni («i campi)», è un'esistenza nuova inserita in un reticolato di relazioni inaspettate (Bovon). E per chi cercherà il Regno di Dio... tutto sarà dato in sovrappiù! (Matteo 6,33; Luca 12,31). E i ricchi? «Piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! le vostre ricchezze sono imputridite...» (Giacomo 5, 1-6).
Un coro di «Beati i ricchi, guai ai poveri»
«Abbiamo il diritto di affermare che Dio viene a incontrarci nella storia e mette davanti a noi la porta del suo Regno» (Dodd). Che può significare l'incontro del Dio delle Beatitudini con la «nostra storia» qui, nel 2017? Siamo in grado di comprendere (qui, ora) i «segni dei tempi» (Matteo, 16,3)? È ovvio, banale, ammettere che in questo mondo interconnesso le conoscenze hanno fatto registrare un balzo inimmaginabile fino ad alcuni decenni fa.
Ma un'altra notizia appare meno ovvia. Per la prima volta, dopo milioni di anni di lotta per l'esistenza, l'umanità, servendosi delle risorse di cui dispone, sarebbe in grado di fornire, a ciascuno dei suoi membri, alimenti, sanità, igiene, istruzione sufficienti per una vita dignitosa. Questo se il mondo fosse governato secondo ragione, con equità. Se si celebrasse la liturgia universale per cui l'affamato, l'afflitto fossero visti come immagine di Dio. Una grande gioia, una vera beatitudine potrebbe riempire i cuori di tutti. Ma vi è ancora un fatto concreto che viene volutamente ignorato. Già da tempo il Worldwatch Institute ne aveva parlato. Ora un testo recente risulta più preciso. «Felicità e benessere hanno smesso di crescere nei paesi più sviluppati da alcuni decenni. Gli indicatori di benessere e felicità non crescono più di pari passo con il reddito nazionale; anzi, con l'aumentare della ricchezza aumentano ansia, depressione e numerosi problemi sociali» (Verso una civiltà della decrescita, a cura di Marco Deriu, Marotta&Cafiero editori, 2016).
Paradossalmente, man mano che tale fenomeno si faceva più evidente, cresceva un'assurda idolatria della crescita. Quando ancora crescita poteva significare aumento di benessere, attenuazione della miseria, molte voci si levavano a mettere in guardia contro i pericoli del consumismo: Berlinguer, Bob Kennedy, don Milani, Alex Langer, Ivan Illich. Persino nelle assemblee di fabbrica si denunciava l'inganno «dei caroselli, della pubblicità, delle canzonette». Ora che oggettivamente, l'equazione «più eguale meglio» viene messa in discussione, l'esaltazione della crescita e l'orrore verso qualsiasi forma di sobrietà, di "austerità", prosegue senza freni. Dall'estrema destra all'estrema sinistra, passando per le varie sfumature di centro destra e centro sinistra... tutti d'accordo nell'adorare la crescita. Neppure si cerca di distinguere tra vari tipi di crescita e di austerità. La deificazione della crescita e la conseguente demonizzazione della decrescita diventano qualcosa universale, dogmatico, religioso. Più che mai echeggia un coro di «Beati i ricchi, guai ai poveri, guai ai vinti».
Dario Oitana
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