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chiesa
Malgrado un accenno a Dio, per il resto tale dichiarazione risulterebbe del tutto "laica", fondata su una fiducia nelle naturali doti di ogni uomo. Tale "laicità" di don Milani verrebbe provata anche che dal fatto che nell'aula dove faceva scuola aveva tolto il crocifisso: «Mi si accusa di non avere in classe il Crocifisso e che in classe non parlo mai ex professo di religione» (II, 274, 277). Lettera a una professoressa è stata molto apprezzata in ambienti laici, anche marxisti. La Fede, il suo sacerdozio erano allora un fatto accessorio? Istruire ed evangelizzare Dopo avere analizzato a fondo la situazione della parrocchia di San Donato di Calenzano, di cui era Cappellano (vice parroco), don Milani giunge a un'impietosa conclusione: «La cultura religiosa degli adulti del nostro popolo è praticamente nulla» (I, 53). Considera le varie feste, a cui il popolo appare particolarmente affezionato, «per il bagaglio di incoerenze che esse si trascinano dietro in modo ormai inscindibile, uno degli elementi che hanno positivamente contribuito alla scristianizzazione di questo popolo» (I, 98). La situazione a Barbiana risulterà ancora peggiore. «Me la prendo con la storia, coi secoli, col dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a perdonarli, a aver pietà di loro, a amarli come si amano dei poveri malatini, degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano. Come si ama un animale domestico. Sì, m'è scappato detto ormai e lo ripeto: come animali inferiori... Ecco perché per ora non faccio con convinzione altro che scuola. Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato. È che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerlo e intendere. Dopo potranno buttarlo dalla finestra o metterseli in cuore, s'arrangino, se sceglieranno male, peggio per loro... Lo stesso quassù in montagna: con la scuola non li potrò far cristiani ma li potrò far uomini. Potranno rifiutare la Grazia o aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli evangelizzati... Quando la scuola avrà riportato alla luce quell'immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti» (I, 213, 222, 223, 224). La Grazia è «insostituibile premessa alla fede». Ai preti secolari spetta il compito di «spianar la strada alla Grazia» (I, 266). «Dovrei rimettermi soltanto all'azione dello Spirito Santo? Lo faccio, ma col rimorso di chi sa che l'abito che porta non è quello della Trappa, ma un abito che impegna a cercare anche le vie terrene di portare la Grazia» (I, 513). «L'operaio stanco può farsi santo per il disgusto provato a incontrare un prete dalla Gina (Ndr: tenutaria di casa di tolleranza) e può farsi santo per l'edificazione d'averlo trovato invece prostrato all'altare... Ma non è per lo scandalo che si dà che non si deve usare metodi indegni della veste che portiamo, non è per gli occhi del povero che giustamente ci giudicano e ci disprezzano, ma per gli occhi di Dio che vuole noi all'altezza della nostra vocazione» (II, 372). Teologia ed etica milaniane Teologia? Meglio dire "non-teologia"! «Quando una cosa ti è davanti agli occhi come una realtà oggettiva e ben palpabile non perdi tempo a rammentarla e descriverla e difenderla ogni 5 minuti. Nessuno scrive libri e fa conferenze e ingaggia appassionate discussioni per dimostrare che di giorno c'è il sole e di notte c'è buio. E così faccio io con l'esistenza di Dio e la storicità del Vangelo ecc. ecc. Quelli che si danno pensiero di immettere nei loro discorsi a ogni piè sospinto le verità della fede sono anime che reggono la Fede disperatamente attaccata alla mente con la volontà e la reggono con le unghie e coi denti per paura di perderla perché sono interiormente rosi dal terrore che non sia poi proprio tutto vero ciò che insegnano... Io non potrei vivere nella Chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in questo atteggiamento difensivo e disperato. Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco perché gli voglio bene. E capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza!!!» (II, 716). Il Credo"morale" di don Milani è qualcosa di complesso e talvolta sconcertante. «Il sacerdote è padre universale? Se così fosse mi spreterei subito. E se avessi scritto un libro con cuore di padre universale non v'avrei commossi. V'ho commosso e convinto solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature, ma che le amavo con cuore singolare e non universale» (II, 653). «Quando i pii predicatori gesuiti dicono che bisogna amare tutti egualmente: ricchi e poveri, colti e incolti, mi fanno pietà, è segno che non hanno mai amato nessuno. Preferisco amare questi pochi, ma amarli concretamente» (II, 759). «Mi faccio guidare da Dio e non dagli uomini e se un giorno mi si presenta una donna brutta che tutti gli uomini hanno rifiutato e che muore di voglia di provare di andare a letto con un uomo e mi chiede con le lacrime agli occhi di levarle questa voglia tormentosa, io non l'ascolto. Uso la ragione per studiarmi sui comandamenti la volontà di Dio e poi prendo una decisione che calpesta i bisogni di quella poveretta. Così faccio al disoccupato il giorno che con la ragione avessi potuto valutare che la mia vita di sacerdote si sta riducendo alla stregua di un'opera d'assistenza. Spero di non averti ulteriormente confuso le idee» (II, 490). «A me non importa nulla che i poveri ci guadagnino, m'importa solo che gli uomini smettano di peccare... Venisse a confessarsi da me una peccatrice di professione e dicesse: "Padre, lei dice bene. Il mio mestiere è un'offesa a Dio. Ma lei non pensa che ho dieci figlioli. S'io smettessi a un tratto li butterei sul lastrico"... Quella donna sarebbe ammirevole per buona volontà ma sarei purtroppo costretto, benché a malincuore, a negarle l'assoluzione» (II, 252). «Ciò che essenzialmente distingue la beneficenza cristiana da quella filantropica è che il cristiano agisce nel nome di Dio e ama il prossimo solo per interiore obbligo. Il filantropo invece ama il prossimo e basta. Il filantropo dunque è costretto a fare l'elemosina bene: deve guardarsi dai falsi poveri, deve fare calcoli statistici per vedere qual è la zona di maggior bisogno ecc. perché se alla sua opera mancasse l'efficacia le mancherebbe il motivo d'essere. Non così per il cristiano per il quale l'elemosina gli sarà pesata solo in misura dell'intenzione che ha avuto e del sacrificio che gli è costata. Al cristiano verrà contata l'elemosina sia data al gobbo che aveva i milioni nella gobba che quella data al povero vero. E gli si guarderà più a come resta il suo portafoglio dopo l'elemosina che non a come si troverà il portafoglio del povero. In altre parole: al cristiano l'elemosina ottiene la sua efficacia nell'attimo che parte dal suo portafoglio; al filantropo solo nell'attimo che arriva all'altrui portafoglio. San Francesco regalò tutti i suoi beni al ricco padre. Si può ben dire che amava la povertà più che i poveri e che voleva la perfezione cristiana più nello spogliamento di sé che nel vestimento degli altri» (II, 489). Escatologia «Io non credo né nella scuola, né in altre proposte, ma credo solo nella soluzione divina adombrata nella "Lettera dall'Oltretomba" che invece è parsa superflua o di cattivo gusto alla maggioranza dei recensori» (II, 585). Perché a tale "Lettera" viene attribuita tanta importanza, più importante della scuola? Essa è la drammatizzazione di una visione della storia già emersa in una lettera del 1947. «Ai tempi delle invasioni barbariche sembrava la fine. E invece è caduto quel che doveva cadere, è restato quel poco che doveva rimanere ed è nato un mondo nuovo... Anche ai tempi di Geremia era lo stesso. Anche allora la sconfitta, la distruzione del Tempio, l'esilio, la disperazione sembravano la fine e invece Geremia vedeva che erano il principio d'una religione nuova e più vera» (II, 110). Abbiamo la seguente dedica di Esperienze pastorali (I, 5), tutto maiuscolo: «QUESTO LAVORO E' DEDICATO AI MISSIONARI CINESI DEL VICARIATO APOSTOLICO D'ETRURIA». In fondo abbiamo la data: «DICEMBRE 1954». Perché questa data quando il testo sarebbe apparso tre anni più tardi? Forse perché in quell'epoca dovette lasciare San Donato per Barbiana? E, come scrive Alberto Melloni nell'introduzione, la sua protesta avrebbe fatto dell'«esilio un trono» (I, XLV)? Alla dedica segue la citazione di Romani 11,19: «I rami sono stati recisi affinché tu fossi innestato. Per la loro incredulità sono stati recisi. Tu dunque stai saldo nella fede». Don Milani opera nel testo un leggero cambiamento per rendere la citazione più diretta agli interlocutori. E dopo la «dedica» iniziale, abbiamo al termine del libro la «Lettera dall'Oltretomba riservata e segretissima ai missionari cinesi» (I, 479). Come sostiene David M. Turoldo nella prefazione al saggio di Neera Fallaci Vita del prete Lorenzo Milani, «Egli ha visto la resa dei conti e ha pensato che avranno imparato almeno loro, cioè i missionari cinesi del vicariato apostolico d'Etruria «contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi». Egli immaginò, dopo la nostra miseranda fine di chiesa e di cristiani dell'Occidente ("uccisi dai poveri", "distrutti i templi", "sbugiardati gli assonnati sacerdoti") una rievangelizzazione delle nostre terre ad opera di missionari venuti dalla Cina. Una continuità dunque di Cristo anche per quelle nostre povere genti sopravvissute, in virtù anche di una specie di viaggio di ritorno del cristianesimo in Occidente. Quasi paradossalmente meritato dal nostro tradimento. Cioè egli immagina che possa accadere come per Israele il quale, avendo tradito, è stato occasione di salvezza per i pagani. Così il nostro tradimento potrà essere occasione di salvezza per l'Asia e la Cina. E come, alla fine, si spera nella salvezza di Israele, così speriamo succeda anche per noi. Tutto sommato, è una visione positiva della storia, storia come mistero di salvezza, storia che obbedisce al disegno di Dio, comunque vada la storia per colpa nostra. Non incredulità ma fede». È difficile non cedere alla tentazione di un'impossibile attualizzazione, sessant'anni dopo la "profezia" di don Milani. Non il comunismo ha conquistato il mondo, ma il pensiero unico del capitalismo. La Cina è una potenza supercapitalistica. Chi potrebbero allora essere i "missionari"? I profughi sui barconi? Gente che viene dalle periferie, dalla "fine del mondo"? Dario Oitana
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