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 447 - Raccontare Gesù

 

Un centurione romano sotto la croce

Giuseppe Culicchia, noto scrittore torinese di origini siciliane, è stato chiamato insieme ad altri maestri del narrare, a misurarsi nella collana «Scrittori di Scrittura» con una sfida audace quanto pericolosa: rivisitare in chiave narrativa e letterariamente creativa uno degli episodi cruciali della Bibbia.

Si tratta di una sfida non del tutto inconsueta, ma oggi, salvo poche e sostanziose eccezioni, appannaggio di una pubblicistica devota e apologetica. Nel nostro caso Culicchia se la deve vedere con la Crocefissione, letta all'insegna delle ultime parole di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», che i vangeli di Marco e di Matteo riprendono dal salmo 21 e che qui diventano titolo di un breve racconto, sostituendo alla metafora «Dio» la metafora «Padre», solo in apparenza teologicamente e narrativamente innocente (Padre mio, perché mi hai abbandonato?, Effatà Editrice 2017, pp. 60).

Non so se questa riaccentuazione semantica della particolare relazione di Gesù con Dio nasca da una scelta autonoma dell'autore o dal suggerimento dei promotori della collana: Gian Luca Carrega, responsabile dell'Ufficio diocesano di Pastorale della cultura e curatore di essenziali e aggiornate presentazioni esegetiche dei testi, e Stefano Gobbi di Torino Spiritualità, incaricato di curare i contatti con gli scrittori. In ogni caso è chiaro che i responsabili dell'iniziativa, nel tentativo di dare volto a quella riscoperta del carattere letterario della Bibbia che una quarantina d'anni fa ha dato inizio all'avventura della teologia narrativa e della teologia letteraria, stanno ancora saggiando la percorribilità delle strade che si aprono a questo nuovo percorso culturale.

 

Quando il catechismo condiziona la creatività

Ora, visto il particolare sviluppo che l'autore stesso dà al suo intero racconto della passione, costruito più sulla base della narrazione catechistica a suo tempo ricevuta in parrocchia, che sul diretto ed esclusivo confronto con la narrazione che dell'evento fa Matteo, viene da pensare che anche nel titolo abbia, più o meno consciamente, fatta propria la convinzione, comune negli ambienti ecclesiastici, che ogni corretta ripresa narrativa dei testi antico e neotestamentari, per quanto audace e originale, non possa che portare acqua al mulino della sistemazione dottrinale, data ad essi dal magistero.

Valga per tutte questa osservazione: Matteo come Marco non pone tra i compagni di sventura di Gesù sul Calvario un buon ladrone, con ciò che segue. Lo pone Luca e lo riprende Culicchia. Marco, Matteo e Luca non pongono tra le donne sotto la Croce la madre del Nazareno; la pone Giovanni, che tace come Luca il «Dio mio…» e che mette in bocca a Gesù morente altre parole finali, esattamente quel «Tutto è compiuto» (Gv 19,28-30) che improvvidamente il nostro autore riprende col risultato di oscurare definitivamente l'alto valore drammatico, per Matteo, quasi tragico, per Marco, del «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».Altro ci sarebbe da dire su questa infedeltà al testo, ma sarebbe insistenza inutile e, alla fin fine, deviante ancor più che pignola. Questo perché una certa infedeltà è da dare per scontata, visto che allo scrittore è stato chiesta una ritematizzazione narrativa di un testo biblico, non la sua inutile ripetizione e l'ancor più inutile abbellimento. Gli è stato chiesto di reinterpretare esistenzialmente il testo, di renderlo narrativamente capace di comunicare il suo messaggio agli uomini di oggi, di riviverlo in un linguaggio che esprima le nostre nuove capacità di comprensione razionale, emotiva, etica e spirituale dell'esistenza.

Direi allora che qualcosa è venuto a mancare, per oggettiva difficoltà di comunicazione e di reciproca comprensione, tra coloro che hanno dato l'impostazione teologico-culturale alla collana e colui che si è trovato a doverle tradurre nella riscrittura di una narrazione tanto complessa e delicata come quella dei testi evangelici relativi alla crocefissione. Questa cosa è il non semplice, ma ormai indispensabile, chiarimento che le quattro narrazioni neotestamentarie della «vita, morte e resurrezione di Gesù il Cristo», non vanno lette come quattro diverse ricostruzioni storiche o testimonianze giuridiche, orientate a una futura unificazione dei Vangeli così da consentire la ricostruzione, più o meno completa, di un fatto.

 

Una crocefissione, quattro racconti

I quattro vangeli, conservati distinti dalla tradizione delle Chiese antiche, che da subito ha rifiutato di abbandonarle a vantaggio di una narrazione che le fondesse in unico scritto (il Diatessaron di Taziano, 150-70 d. C.), sopravvivono come custodi di un pluralismo teologico e pastorale, che nessuna normalizzazione catechistica e dottrinale delle Chiese storiche è riuscita a spegnere.

I vangeli vedono la luce come quattro diverse interpretazioni narrative di tale evento e giungono a noi nella forma di annuncio, di eu-angelion, di invito a cogliere nella vita terrena di Gesù i segni di una cristicità salvifica, esprimibile come «divina figliolanza». Solo nel Vangelo di Giovanni, il più tardo e teoricamente elaborato, tale figliolanza è esplicitamente orientata alla nascita del tema teologico dell'Incarnazione di Dio nel Figlio a opera dello Spirito. Negli altri è presente con una diversa intenzionalità narrativa, non inconciliabile teologicamente con quella di Giovanni, ma propria a ciascun evangelista e diversa da quella degli altri. Diversa per sfumature di linguaggio, accentuazioni e sviluppo delle varie parti comuni, per sostituzione di cruciali aggettivi e avverbi, per variazioni di particolari non secondari, per radicali sostituzioni, come abbiamo già visto, delle stesse ultime parole uscite dalla bocca di Gesù morente.

Tutto ciò si può spiegare in larga parte solo leggendo ogni Vangelo all'interno degli sviluppi e delle tematiche caratterizzanti l'impostazione esistenziale, spirituale e teologica di ogni evangelista, interrogandosi sulla situazione storica, culturale e sociale delle comunità in cui è vissuto, dalla cui tradizione ha ricevuto memoria degli eventi narrati e a cui ha destinato il proprio scritto.

Bisogna riconoscere che nelle pagine a lui riservate il biblista Gian Luca Carrega, presentando esegeticamente il testo di Matteo, fa interamente il suo dovere. Al centro del suo breve ma chiarissimo discorso pone la necessità di cogliere innanzitutto la specificità del racconto della passione secondo Matteo. Segnala la sua dipendenza da Marco, le differenti accentuazione dei ruoli giocati nei due distinti racconti, pur cosi simili, di quanto accade sul Golgota. Evidenzia che questo non dipende da una diversa conoscenza dei fatti, ma dalla diversa modulazione interpretativa della figura di Gesù, tesa in Matteo a stemperare la tragicità del processo kenotico di Marco, e a offrire ai lettori il conforto di segni che ne facciano intuire la divinità e il futuro trionfo. Non tace il fatto che Luca è ancor più orientato alla sdrammatizzazione dell'evento, che con la figura del Buon Ladrone anticipa addirittura la presenza di Gesù in paradiso, fa “glorificare Dio” dal centurione romano e piangere pentite le folle presenti. Giunge a precisare che «in Matteo non arriviamo ai livelli di seraficità raggiunti da Giovanni ... dove Gesù … sempre sicuro di sé … spira come se si trovasse su un comune letto di morte e non su una croce».

 

Parole di vecchio combattente

È la ragione per cui mi sono chiesto cosa non avesse funzionato nella comunicazione tra i diversi professionisti qui coinvolti, tutti qualificati nei rispettivi campi. Non posso che concludere che, come ripresa narrativa del testo di Matteo, questa moderna prosa fallisce, a meno che la si intitoli Un centurione romano sotto la croce. Culicchia fa narrativamente sua la carne del centurione che, a seguito di un terremoto che scoperchia i sepolcri, esclama: «Davvero costui era figlio di Dio!»; parole che il crudo «Vistolo spirare in quel modo» di Marco rende ben più enigmatiche.

Inutile sottilizzare sul fatto che nella riproduzione del testo matteano (27,33-50), che apre il volumetto, la presenza di un centurione non compare, che ad eventi miracolosi non si fa cenno ed è assente di conseguenza la singolare affermazione. I versetti che li contengono si trovano infatti in Matteo 27,51-54.

Più proficuo riconoscere che proprio la presentazione del percorso umano di questo incallito guerriero − la memoria delle passate, tragiche esperienze di legionario a Teutoburgo, l'esame del proprio presente di quasi carnefice in un ostile città del Medio Oriente − restituiscono valore all'intero racconto. Sono le riflessioni del centurione, maturate verso il mezzogiorno sulla collina dei patiboli, tradotte in atti di pietà verso il Crocefisso e di quotidiana affabilità verso chi intorno alla croce si muove, che consentono all'autore di esprimersi come scrittore. È la promessa al padre di non piangere mai che lascia il posto al pianto per uno sconosciuto che atrocemente muore abbandonato dal padre, che permette al lettore di riconoscerlo tale. Anzi forse di cogliere in lui una sensibilità spirituale, teologicamente fondata per gli interrogativi che pone e si pone: «Figlio di Dio, ma di quale Dio?»; «Perché la strage dei legionari sui compagni a Teutoburgo? Perché il Golgota? … E come potrebbe un dio onnipotente e misericordioso permettere un tale scempio, la morte lenta, atroce, del suo stesso figlio?».

Mi chiedo se si potrebbe dire che questo centurione burbero del cuore tenero e dall'appassionato bisogno di capire bene si accompagna ai protagonisti degli altri assai più impegnativi e riusciti romanzi di Culicchia. Ma proprio questo interrogativo mi induce a pensare che ben altra lettura narrativa della morte del Nazareno avrebbe potuto vedere la luce, se all'autore di Tutti giù per terra (Garzanti 1994) fosse stato proposto di misurarsi con la passione secondo il Vangelo di Marco.

Aldo Bodrato

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