
Nel 2018 si celebra il settantesimo anniversario della proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si tratta di un documento d’importanza storica che risponde agli orrori della seconda Guerra dei Trent’anni (1914-1945). Cercando di lasciarsi alle spalle ciò che l’umanità non può più permettersi, la Dichiarazione vuole stabilire i diritti di cui ciascun singolo individuo gode solo in quanto essere umano, a prescindere da qualunque differenza specifica. La Dichiarazione del 1948, quindi, aspira ad essere “universale” perché non intende escludere mai più nessuno e per nessun motivo. Occorre rilevare che si tratta di un paradosso perché questa pretesa di universalità e definitività nasce da un contesto “particolare” dal punto di vista culturale e storico. Il testo si ispira ad altri celebri documenti (es. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese del 1789; basti pensare che nell’art. 1 si stabiliscono i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza) e, più in generale, si nutre del patrimonio valoriale della tradizione occidentale giudaico-cristiana. Nel 1948 solo 10 Stati su 58 non votarono la Dichiarazione. Di questi, ben 6 appartenevano al blocco sovietico: volendo estendere i diritti al di là di quelli ereditati dalla tradizione individualista e liberale, spinsero per il maggior riconoscimento possibile dei diritti economici e sociali e si astennero. Si astenne anche il Sudafrica, per altri e ovvi motivi legati all’apartheid, e non votò l’Honduras. Non sottoscrissero la Dichiarazione anche due paesi arabi: Yemen e Arabia Saudita. Già in sede di discussione della bozza, facendosi portavoce dei paesi islamici, il rappresentante dell’Egitto aveva avanzato obiezioni e riserve di carattere religioso «che non potevano essere ignorate» perché sorgenti «dallo spirito stesso della religione musulmana». La maggior parte dei paesi islamici presenti decise comunque di approvare la Dichiarazione, ma quelle obiezioni ricomparvero tra le motivazioni ufficiali con cui l’Arabia Saudita rifiutò di sottoscrivere il documento: si contestavano, in particolare, il diritto di cambiare religione e il diritto delle donne musulmane di sposare uomini non musulmani. Quel passaggio storico inaugurò un importante dibattito nel mondo islamico che giunge fino a oggi. Le riserve sulla Dichiarazione del 1948 e sui suoi fondamenti ideali hanno prodotto una serie di documenti che da un lato si propongono come alternativi, ma che d’altra parte testimoniano un’adesione profonda e sincera da parte del mondo islamico alla cultura dei diritti umani: la Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo (proclamata nel 1981 presso l’Unesco a Parigi), la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell'Islam (risoluzione 49/19-P della XIX Conferenza Islamica del 1990), la Carta araba dei diritti dell'uomo (nel 2008 è entrata in vigore per i 13 paesi che compongono la Lega Araba la versione del 2004 che emenda quella del 1994). Apprezziamo per la sua ricchezza e vastità il modo in cui si declina in questi documenti la trattazione dei diritti umani, ma non possiamo astenerci dal rilevare alcuni aspetti problematici, a partire dalla significativa scomparsa fin dai titoli del concetto di universalità in favore di declinazioni particolari arabe o islamiche. La Carta del 2004, per esempio, all’art. 1 inserisce tra le sue finalità «insegnare ad ogni persona umana negli Stati arabi la fierezza della propria identità, la lealtà al proprio paese, l'attaccamento alla propria terra, alla propria storia e al comune interesse». Un altro elemento per cui le Dichiarazioni del 1981 e del 1990 si discostano da quella “universale” del 1948 – e che riteniamo un passo indietro sul piano della laicità – è la riconduzione dei diritti umani alla volontà divina e alla Legge islamica. Il testo del Cairo, per esempio, si chiude all’art. 25 con la seguente affermazione: «La Shari'ah islamica è la sola fonte di riferimento per interpretare o chiarire qualsiasi articolo della presente Dichiarazione». Ciò non può non influenzare l’interpretazione dei diritti che la Dichiarazione del 1948 cerca di stabilire in modo assoluto e universale.
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