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448 - 27 gennaio, una mostra (già chiusa) per non dimenticare |
I percorsi interrotti di Nora e Giorgio
Davanti al numero 12 di Corso Massimo D’Azeglio a Torino c’è una piccola pietra d’inciampo (Stolperstein). |
Vi sta scritto: «Qui abitava Eleonora Levi, nata 1884, arrestata 8.3.44, deportata 1944 Auschwitz, assassinata 10.4.1944». Ricordare le vittime dei campi di sterminio apponendo pietre d’inciampo dove hanno abitato, come persone libere, l’ultima volta, è un’iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig. Ne sono già state posate oltre 60.000 in tutta Europa, quella che ricorda Nora Levi, nel gennaio 2015, è stata la cinquantamillesima. Un doveroso ritorno dai numeri alle persone.
Alla figura di Eleonora Levi e a quella del figlio Giorgio Tedeschi è stata dedica la mostra «percorsi interrotti», piccola ma molto ben allestita, nei locali della Biblioteca Nazionale. È finita il 27 dicembre; meritava di durare più a lungo, almeno fino al 27 gennaio, anche per la grande semplicità e la sapiente efficacia didattica che ne facilita la lettura alle giovani generazioni. Ci auguriamo che possa essere riproposta presto in altre sedi, magari con modalità itineranti.
Pittrice di valore, la Levi era stata allieva di Carlo Follini, artista vicino agli innovatori della cosiddetta scuola di Rivara, che più che altro fu un cenacolo di amici. Di lei sono stati esposti, per la prima volta al pubblico, alcuni quadri che rivelano secondo le parole della curatrice Giovanna Galante Garrone «un tocco sensibile, uno spiccato gusto materico e una non comune energia». Di Giorgio, giovane architetto, assunto presso lo studio Giò Ponti di Milano e costretto dopo le leggi razziali del ’38 all’umiliazione di non poter firmare i suoi progetti, si potevano ammirare molti disegni, tra i quali uno stupendo autoritratto. Non distinguendo i colori, approfondì, con passione e tenacia, le potenzialità del bianco e nero e raggiunse risultati veramente eccellenti. Completavano il materiale esposto alcune foto e testi scritti. Insieme alla madre e alla moglie Giuliana Fiorentino, anch’essa deportata ma sopravvissuta all’inferno di Auschwitz, fu tradito da un delatore (compensato da qualche migliaio di lire e qualche chilo di sale). La madre fu arrestata mentre era degente in una clinica di Torino. Pochi giorni dopo l’arrivo in Polonia fu uccisa come Aurelia Josz e Irène Némirovsky. Giorgio invece perì durante il trasferimento a marce forzate da Auschwitz verso Buchenwald e Mauthausen. Una tragica Odissea che ci racconta il giovane Elie Wiesel (durante la quale perse il padre, neppure cinquantenne) e a cui sfuggì, perché malato, Primo Levi, che così scrive, nella prima pagina de La tregua: «Tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose … mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. L’originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi nessun uomo vivo» fu abbandonata in seguito a un violento e imprevisto attacco aereo. Dobbiamo quindi pensare a Giorgio, trentaduenne, in quella marcia disperata, tra le urla delle SS. Fino a quando… al mattino «le SS ordinavano di riformare i ranghi. Riprendemmo la marcia. I morti restarono nella corte, come fedeli guardie assassinate, senza sepoltura. Nessuno aveva recitato per loro la preghiera dei morti» (E. Wiesel, La notte, p. 91).
Giuliana Fiorentino Tedeschi rientra a Torino alla fine del conflitto e ritrova le figlie Rossella ed Erica, nascoste da una domestica e sfuggite alla Shoah. Una vicenda del tutto analoga a quella vissuta da Elisabeth e Denise Epstein, figlie di Iréne Némirovsky. Scrive, nel 1946, Questo povero corpo, uno dei primissimi testi sulla deportazione, e sarà testimone tenace e coraggiosa fino alla morte nel 2010. Solo dopo la scomparsa della madre, Rossella Tedeschi Fubini raccoglie e ordina il materiale in modo da ridare voce al padre e alla nonna, perché: “Mio padre aveva 32 anni quando è stato deportato, e io non ne ho alcuna memoria. Anche dopo, come succede spesso ai figli dei sopravvissuti, non ho mai voluto chiedere nulla per paura di risvegliare il dolore». Pregio di questa mostra è anche quello di far cogliere la fatica e il dolore del dopo, di ciò che si vuol ricordare ma che si teme di indagare e approfondire. «Dalla corrispondenza tra mia madre e mio padre ... traspare soprattutto il desiderio di quella vita normale che invece non hanno potuto avere».
A noi fu dato in sorte questo tempo, 1938-1945, titolava qualche anno fa una mostra dedicata a Primo Levi e ai suoi amici ventenni che si affacciavano fiduciosi alla vita. «Percorsi interrotti», vite interrotte.
Pier Luigi Quaregna
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