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teologia
Nella maggioranza degli interventi più accesi della discussione le parti in contrapposizione, concentrate sull'immediato presente, hanno fatto come se il vescovo di Roma fosse il primo che sollevava il problema dell'opportunità di questo cambiamento. Una riflessione più attenta avrebbe dovuto indurli a tener conto che così non è. Infatti fin dai primi secoli della storia della chiesa, il versetto “kài mé eisenènkes hemàs eis peirasmòn” di Matteo (6,13) e di Luca (11,4) è stato oggetto di molte diverse letture da parte di apologeti e padri della chiesa. Letture diverse che tra l'altro, dieci anni fa, hanno portato la Cei ad autorizzare l'edizione di una Bibbia in cui il passo incriminato suona “non abbandonarci alla tentazione”. Provo dunque a fare il punto su tale dibattito prima di iniziare l'esame critico di una quaestio disputata che, in più tappe, ci porterà molto lontano nella ricerca delle radici del nostro immaginario teologico. Due righe di cronaca L'iniziativa di correggere la versione italiana della Bibbia, compresi i vangeli, è stata presa e attuata dalla Conferenza episcopale italiana cinque anni prima dell'elevazione del cardinale Bergoglio alla cattedra di Pietro. I vescovi italiani, tutti nominati da Giovanni Paolo II, allora regnante, hanno sostituito (202 sì e 1 no) il collaudato “non indurci in” del Padre nostro, col più abbordabile “non abbandonarci alla”, su suggerimento di una commissione di esperti guidati dai vescovi di Milano, Carlo Maria Martini e Giacomo Biffi di Bologna. La Congregazione romana per il culto, però, ha dimenticato (?), fin che è rimasto papa Benedetto XVI, di compiere il passo successivo: la conseguente modifica della corrispettiva preghiera nella Messa. Pochi, così, se ne accorsero e ancor meno hanno protestato. Nell'estate scorsa, per sanare l'evidente incongruenza di un'ottima iniziativa rimasta pastoralmente zoppa, Bergoglio ha proposto di utilizzarne il frutto per uniformare la preghiera della messa a quella del testo biblico. Il suo suggerimento è stato subito ripreso e rilanciato da tutti i media all'insegna di titoli come: Il papa corregga il vangelo, Il papa vuole cambiare il Padre Nostro, diventando presto virale sui network. Di conseguenza i “mi piace” sono entrati in contesa coi “non mi piace”, sovrapponendosi in un confuso mucchio di slogan poco argomentati e non privi di insulti e colpi bassi a cui, con più sussiegosa compostezza, si sono uniti anche alcuni vaticanisti e, più o meno direttamente, qualche vescovo italiano contrario alla linea pastorale del loro collega romano. Per fedeltà alla cronaca è giusto riconoscere che il papa, comunicando a tutti la sua decisione, si è avvalso di un colloquio informale. Ha parlato a braccio, per cui è facile capire che il suo “Non lasciarmi cadere in tentazione” non ha alcun valore ufficiale. Usa il singolare, tipico della preghiera individuale, in luogo del plurale proprio di quella comunitaria. Inoltre sembra scegliere la strada seguita dalle chiese francese e spagnola (“non lasciarci cadere in”), invece di quella fatta propria dalla chiesa italiana (“non abbandonarci alla”) come era naturale attendersi. Non solo. Riprende anche la superficiale motivazione, addotta dal portavocee dei vescovi francesi, che ha motivato la nuova formula con l'affermazione che tradurre il greco eisenènkes con “indurre” «non è una buona traduzione». Il che è sbagliato e sarebbe stato meglio che il papa non lo avesse ripetuto. Traduzione e tradizione Non ho qui difficoltà a condividere le riflessioni di Dario Oitana sull'apportunità di procedere coi piedi di piombo nella correzione del testo dei vangeli (il foglio 448). Gira e rigira, infatti, i sostenitori e gli oppositori delle citate versioni concordano sul fatto che tanto il greco eisenènkes che il latino inducas corrispondono al nostro “fare entrare - indurre” delle vecchie Bibbie. La cosa migliore, dal punto di vista strettamente filologico, sarebbe stata forse quella di mantenere la vecchia traduzione, avendo cura di aggiungere, al piede del testo biblico così tradotto, una nota che chiarisse le diverse sfumature di significato che “indurre” aveva per l'uomo mediterraneo dell'età ellenistica e medioevale e quello che ha per l'europeo odierno. Bastava ripetere quello che aveva precisaro, nel 2007, monsignor Giuseppe Betori, cioè che l'eisenènkes - indurre di Matteo e di Luca, che rendono in greco l'aramaico di Gesù, non ha univoco e diretto valore causativo, come l'“indurre” in uso nelle lingue moderne. Mentre l'ebraico e l'aramaico di quei secoli, dotati di un vocabolario di sei-settemila parole, erano costretti a concentrare più significati simili in uno stesso vocabolo, l'italiano e le altre lingue moderne, assai più strutturate e ricche di vocaboli, sono infatti in grado di esprimere con termini diversi molteplici sfumature di significato, pur senza perdere del tutto l'antica plurisemanticità. Ne consegue che, se in tutti gli scritti antichi e moderni il senso preciso di ogni parola va verificato nel contesto delle opere del suo autore, in quelli antichi questa verifica va estesa anche a quelle coeve della stessa tradizione culturale. È chiaro, a questo punto, che la nostra ricerca non può essere considerata conclusa. Essa ci ha confermato che, in una società figlia di una civiltà plurimillenaria, in cui lo strumento fondamentale della costruzione e della trasmissione del sapere e del potere è ormai la scrittura, chiedere la conservazione fedele dei testi, che costituiscono il suo patrimonio culturale e sociale, non è una pignoleria. È essenziale, ma non sufficiente per garantirle la sopravvivenza. Per non morire lentamente, ma inesorabilmente, tale società deve custodire la memoria della sua origine e della sua storia e saperne contemporaneamente valorizzare i frutti. Solo così può evitare che inaridiscano le sua radici e rendere attiva e sempre presente l'eredità dei predecessori. Fare cioè quanto già raccomanda Matteo: «Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli ... estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (13,52). Tutto ciò significa per noi che è nel nostro oggi che ci è consentito di dare senso al nostro ieri e all'altroieri dei nostri nonni, facendolo nostro con nostre parole e nostri atti. Coloro che pretendono di far tornare presente il passato in realtà agiscono come se fosse possibile obbligare il presente a tornare al passato. Negano a se stessi il futuro e lo negano anche ai propri padri, privandoli della gioia di veder crescere i propri figli, di vederli aprire per loro e per se stessi nuovi orizzonti. Ecco perché, dal punto di vista della giusta conservazione di un'antica preghiera, è corretto che ogni studioso e curatore di testi scritti la traduca nella sua lingua, scegliendo le parole che meglio delle altre garantiscono al lettore di potersi misurare col testo originario. Al tempo stesso ecco perché, per analoghe ragioni, è invece, non solo lecito ma doveroso che chi ripete oggi quella stessa preghiera in comunità, possa recitarla con parole che davvero esprimono il suo sincero e naturale sentire, senza essere obbligato a fare l'esercizio diseducativo di pronunciare una parola che, non esprimendo pienamente il suo pensiero, diventa puro suono o rumore. Tradurre non è tradire, proprio come trasmettere non è conservare. Se per i traduttori la regola d'oro è mantenere inalterato nella loro versione dei testi antichi, quasi alla lettera, il rapporto tra le parole originarie e i loro possibili originari significati; per chi ha cura della tradizione è far sì che quei significati trovino sempre più matura espressione nel continuo arricchimento di capacità espressive, comunicative e veritative nelle parole della lingua dei loro contemporanei. Sei giorni, sei facce Credo non sia difficile cogliere che tutta questa disputa sulla corretta interpretazione di un versetto implica qualcosa di più del pur fondamentale rispetto delle regole filologiche. Dietro all'ormai classico “non indurci”, fissato per scritto nelle edizioni della Bibbia, come dietro all'eventuale “non abbandonarci” di quella pregata in comunità, sta un'immagine di Dio, destinata a essere conservata, quanto più fedelmente possibile, nella sua forma di testo scritto. Obbligata a trasformarsi per restare viva, nella forma orale e scritta della preghiera, dell'interpretazione etica e teologica, della rappresentazione artistica. Per cominciare a farci un'idea di come mai possiamo immaginare il volto del Dio a cui ci rivolgiamo quando recitiamo il Padre nostro, la cosa migliore è guardare al Dio che il giovane Michelangelo ci presenta sulla volta della Sistina e a quello che nella maturità evoca sulla parete del Giudizio e nelle Pietà della sua vecchiaia. Idealmente modellata, per forma e volume, sull'aula interna del Tempio di Salomone, la Cappella Sistina, per volere dei Principi della Chiesa, non è spoglia come il mitico “Santo dei Santi”, ma ricca di immagini che, in grandi riquadri, dipinti dai maggiori artisti del Rinascimento, rappresentano gli eventi fondamentali della storia della salvezza antico e neotestamentaria. È in alto, verso il cielo di questa sala, che dobbiamo fissare l'occhio per ammirare le facce del Dio Padre più famose dell'arte cristiana occidentale. È qui, infatti, che Michelangelo, tra il 1508 e il 1512, dà forma e colore alla storia divina della creazione e a quella umana della caduta e del diluvio. Constateremo allora che al Creatore Michelangelo attribuisce sei facce, una per ognuno dei primi sei giorni della creazione e tutte seriamente impegnate in azioni diverse. Partiamo dunque dalle scene più vicine alla parete d'ingresso per procedere verso la parete del Giudizio, oltre l'altare. È questo l'ordine di esecuzione seguito dal pittore. Ci accorgeremo subito che Michelangelo traduce in immagini i primi otto capitoli della Genesi a partire dalla storia della famiglia di Noè e del diluvio (tre riquadri), per proseguire con la creazione di Adamo, Eva, il loro peccato e la loro cacciata (altri tre), e terminare con la creazione divina dell'intero universo (ultimi tre). Non rappresenta Dio nel riposo del settimo giorno che avrebbe occupato il riquadro centrale (quinto della serie), sia perché lo spazio gli manca, avendo sdoppiato la creazione della coppia originaria, sia perché non vuole immaginarlo e rappresentarlo con le mani in mano. Ammireremo su questa volta un Dio sempre più audacemente attivo. Nella messa in scena della creazione di Eva sta fisso di profilo, nobilmente eretto di fronte a lei, benedicente, ma ben intenzionato a non sfiorarla col dito, come invece farà per la creazione di Adamo. Scocca, nel vis a vis con quest'ultimo, la scintilla che dinamizza definitivamente la figura michelangiolesca della creatura e del Creatore. Cinque volte tale figura vi appare di scorcio con l'intero corpo, panneggi compresi, agitati dal vento, di cui quattro con viso, barba arruffata e mani protese all'azione e una di schiena con le chiappe nude e le piante dei piedi in primo piano, intento a dar vita, sulla terra, a ogni sorta di verzura, subito dopo aver scagliato in cielo il sole e la luna. Michelangelo non ci risparmia neanche un magnifico Dio rotante a separare con furia la luce dalle tenebre. Il Libro lo vieta, ma anche lo suggerisce Non mancano i teologi che da sempre lamentano l'eccesso di umana confidenza che Michelangelo si è preso con le sue rappresentazioni audacemente antropomorfe di Dio. Ed è noto che, decenni dopo, lamentele simili, relative ai beati nudi del paradiso, hanno quasi portato alla distruzione del Giudizio Universale, da lui dipinto sulla parete di fondo della Sistina stessa. All'iconoclastia, più o meno radicale, mai sono mancate buone o capziose ragioni logiche e teologiche per lamentare l'abuso di belle forme naturali per esaltare la santità dell'Altissimo. È doveroso tener conto di tutti questi rilievi, ma anche più doveroso è farlo dopo aver preso in considerazione anche questi interrogativi. Poteva Michelangelo, vertice artistico della cultura e della società umanistica e rinascimentale, appellarsi all'innominabilità e all'irrappresentabilità di Dio e ricorrere a figure simboliche non antropomorfe per dare una qualche identità al Creatore, visto che proprio il Libro Sacro che lo vieta, anche lo suggerisce? Non è Dio stesso che autorizza l'uomo a considerarsi una sua immagine? Possiamo noi non leggere, nella rappresentazione michelangiolesca di un Dio maschio, tanto attivo e potente, l'efficacissima rappresentazione della sua paternità autorevole, intesa a mettere alla prova ogni sua creatura? Possiamo, oltre che ammirare la bellezza del capolavoro, anche condividere il messaggio teologico, che per volere dei committenti la volta della Sistina ci impone? Possiamo non chiederci se lo stesso Michelangelo, nella sua lunga vita e nella sua perenne inquietudine spirituale e inesausta ricerca di verità e bellezza, non abbia altro da insegnarci su un Dio che, essendoci Padre, sa di dover conciliare giustizia e carità? Aldo Bodrato
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