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società
Sacko, è finita la pacchia
Sacko Soumayla è il giovane immigrato maliano ucciso il 2 giugno 2018 mentre stava prendendo una vecchia lamiera dai rifiuti di un capannone dismesso. Viveva, con regolare permesso di soggiorno nella tendopoli di Rosarno, in frazione San Ferdinando, senza luce e acqua potabile. Lavorava senza regolare contratto come bracciante nei campi della piana di Gioia Tauro per pochi euro al giorno. «È finita la pacchia» sono parole pronunciate dal neoministro degli interni del governo italiano, Matteo Salvini, il 2 giugno 2018 parlando a Vicenza di immigrazione clandestina. |
Sono già trascorsi più di tre anni da quando con Carovane Migranti ho attraversato l’Italia alla ricerca di come gli immigrati, perlopiù africani, vivono tra noi. e proprio tra i miei appunti sparsi di allora, scritti così come mi erano venuti, ho ritrovato Sacko Soumalya (non so quale sia il nome. ma non mi importa. io lo chiamo Sacko). già, perché è proprio lungo quella strada che a Rosarno devo averlo incontrato. una strada che mi ha segnato a ogni passo con tanti, troppi segni sulla pelle che ancora oggi mi porto dietro. dicevo, allora, che ci vuole tempo per capire questi segni, curarli prima di cucirli con filo nuovo. perché il filo raccolto per strada non era più lo stesso con il quale ero partito. questo era ed è vero. giorno dopo giorno mi è sempre più chiaro il legame tra povertà e sfruttamento in questa società tutta impegnata nel suo esclusivo tornaconto. il legame tra mafia e criminalità è quanto mai radicato. e non solo qui. ho partecipato alla Carovana con il compito di seguirla da Palermo a Torino con la mia vecchia Toyota Land Cruiser (1985) 4x4 simbolo, ancora oggi, in tutto il sahel per attraversamento del Sahara. ma i simboli “dicono” solo a chi li ha vissuti. e a Rosarno la Toyota è stata riconosciuta per ciò che rappresenta. è così che incontro il mali.
da dove vieni, da Mopti, Bamako o dalla regione di Bandiagara? Avrei voluto parlare di casa loro più a lungo. lì ci sono stato tanti anni fa. forse loro non erano nemmeno ancora nati. ora sono venuti in Italia in cerca di fortuna. là coltivavano cipolle. qui raccolgono agrumi, in Calabria, i pomodori, in Puglia o in Basilicata, e le mele e l’uva in Piemonte. se non fosse per la guerriglia che striscia nelle loro terre non so quanto sia loro convenuto attraversare il Mediterraneo. in questo campo di tende appiccicate l’una all’altra si tira a campare giorno per giorno. qualcuno mi dice che c’è anche una che serve da banca. lì vengono conservati i soldi da mandare a casa con Western Union. può darsi. o meglio glielo auguro. anche se ancora una volta mi viene da pensare che c’è sempre chi è più scaltro e si arricchisce anche tra i poveri. sì, avrei parlare di casa loro più a lungo. parlare della propria casa lontana fa bene al cuore. anche se certamente lo spezza quando si è in terra straniera. così tra i ragazzi maliani incontrati è possibile ci fosse proprio anche lui. con lui uno dei ragazzi con i quali ho scambiato quattro calci al pallone. io improbabile giocatore straniero tra giovani con i quali condividevo il ricordo dei baobab. oggi, ancora più di allora, mi tornano in mente i cortei ai quali ho partecipato forse accanto a lui, dove il tempo era dettato dal Sudamerica (Messico in prima linea) con l’insistente motto ossessivo: «I migranti non sono criminali, sono lavoratori internazionali!». impossibile non unire la mia voce alla loro. così come io credo che oggi sia impossibile a tutti tirarsi fuori dalla lotta che là (ma non solo) ogni giorno viene combattuta. impossibile restare indifferenti a un segno di pace dove la formale stretta di mano è stata sostituita da un caloroso abbraccio che testimonia solidarietà. come quello della chiesa, almeno quella che ha marciato accanto a noi in difesa dei diritti dei più poveri non è quella con l’abito della domenica. è quella con il pugno chiuso. quella che dal basso tenta ancora di edificare una nuova umanità. quella che crede ancora che «la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo» (Mt 21,42). e ancora: se l’immigrato (clandestino o meno) non è mio fratello allora Dio (qualunque esso sia) non è più mio padre (colto al volo e citato a senso). già, la tendopoli di Rosarno.
in questa tendopoli è stata costruita una moschea. quattro teli di plastica gettati su dei pali in legno e tenuti insieme da qualche corda. mi fermo davanti al tappetino dell’ingresso. mi rivolgo a Gesù direttamente. lui è il mio Dio per tradizione. migrante tra il cielo e la terra. me lo hanno insegnato in famiglia. gli chiedo il perché di tanta disuguaglianza disparità ridistribuzione nel mondo. non mi risponde. il suo silenzio significa: pensaci. ci penso: i privilegi nel mio modo di vivere sono pagati da coloro che non hanno, e quindi, non sono. mi vergogno. ma so anche che non è la prima volta che mi succede. gesù, lo so, e lo sai anche tu, questa è la mia contraddizione più grande. a chi mi si è fatto intorno e ha chiesto qualche soldo do tutto quello che ho in tasca (poche decine di euro). non bisognerebbe fare così. così facendo spesso si aiutano i più intraprendenti. o scaltri. lo si fa per sentirsi in pace con la propria coscienza. ma si è solo più falsi. ricordo che per fotografare la rosticceria e il minimarket ho dovuto pagare qualche euro.
la cosa mi aveva riportato indietro negli anni quando nel Mali mi veniva chiesto un cadeau per farsi riprendere. già, allora ci eravamo dimenticati che la nostra è una cultura dove per denaro si vende la propria immagine. e non solo. ma non si può disprezzare il denaro, se onestamente guadagnato. lo si deve disprezzare se usato per acquistare inutili ricchezze. il discorso qui mi si complica. anche se non navigo nell’oro so di appartenere al mondo dei ricchi. di quelli che vivono avendo più di quanto loro necessiti. non piango miseria. ma questo non basta. così mi appiccico un’altra delle contraddizioni. facile avere dignità quando si ha tutto. ho sempre però cercato di dire (e lo dico ancora oggi) che una società più giusta non è quella dove tutti sono sempre più ricchi, ma quella dove c’è una equità nella distribuzione della ricchezza. però la rinuncia ai propri privilegi è una occupazione che non è mai stata di moda.
da un cimitero di ruote qualcuna risusciterà per mano dell’uomo. e diventerà compagna di viaggio tra lavoro e tenda. è fortunato. risparmierà i soldi per il trasporto dovuti al caporale. mi interrogo sul come sia ancora oggi possibile la presenza di un fenomeno criminale di sfruttamento della manodopera lavorativa come il caporalato senza l’intervento delle così dette forze dall’ordine. mi interrogo se non esista una sorta di complicità tra controllore e controllato. averi voluto avere solo il tempo di mettermi gli occhiali, nemmeno quelli di Dippold (l’ottico di Spoon River) per leggere quanto accade. avrei voluto che il tempo scorresse lentamente per cercare di vedere i dettagli. non l’ho avuto. così mi sono sentito inadeguato, per conoscenza, su tante questioni. troppe questioni. di qui la mia indifferenza di fronte ad alcune di esse, il mio voltarmi dall’altra parte davanti a sopraffazioni che esigerebbero almeno una indignazione. già ero migrante in me stesso. oggi lo sono ancora di più. non ho fatto, né faccio, bilanci. li trovo inutili. mi basta, e avanza, la certezza che ciò che mi è entrato nel cuore dagli occhi darà i suoi frutti. inshallah.
sacko, ora qui per te la pacchia è finita davvero per sempre. ma è finita anche per chi credeva ancora di costruire ponti tra le genti. Sacko, tienimi un posto lassù. vicino a te. lì un giorno giocheremo ancora a pallone. prenderemo a calci ogni muro costruito su questa terra che, ci piaccia o no, è l’unica che abbiamo. ed è di tutti. ciao, Sacko, arrivederci.
Mino Rosso
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