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 454 - Dopo la morte di alcuni preti operai

 

Il prete, la chiesa, la fede, sono cambiati in fabbrica

La morte di Carlo Carlevaris, e prima quella di Toni Revelli, di Gianni Fabris, e il prossimo decennale della morte di Carlo Demichelis, e altre figure analoghe, come Bernardino Pozzi (che fu redattore del foglio), hanno già suscitato non solo vivi ricordi, ma anche opportune riflessioni sul fenomeno dei preti operai, degli ambienti ecclesiali a loro vicini, e della fede cristiana vissuta in queste esperienze. Quell'insieme di ricerche e di esperienze ha cambiato la figura del prete, le comunità cristiane, la fede stessa.

La demolizione del “clero sacro”

Il prete operaio è un prete rientrato nel popolo. Anche l'antico parroco di campagna era nel popolo, ma ne era pure a lato, superiore per condizione di vita, per autorità anche sociale, senza famiglia propria, viveva dell'altare e non del suo lavoro, differenza decisiva. Ancora di più il prete di città. Naturalmente, con le eccezioni. Il prete operaio è uscito da quella separatezza, si è confuso con i lavoratori, si è fatto «uno di loro» (Charles De Foucauld), ha scelto la classe povera di allora, anche le sue lotte di solidarietà e giustizia, spesso con una consapevolezza più chiara della causa comune, spesso criticato dalla chiesa ufficiale come per una contaminazione del sacro col mondo, e in pericolo di contagio marxista… Quel tarlo dell'individualismo, emerso poi come causa della crisi della sinistra, corrotta dal liberismo, era già visto dai preti operai, per la loro sensibilità morale: essi contribuirono quanto poterono a tener vivo un filone di pensiero-azione per la giustizia, perciò anche per gli ultimi più ultimi, privi di forza organizzata. Il prete operaio si è declericalizzato. L'abito e l'aura del “separato” scompariva dalla sua persona. Toni Revelli, che sapeva ridicolizzare le nullità, chiamava la talare “la maxi-gonna”. Spesso i compagni ignoravano che quell'operaio fosse un prete, e lo scoprivano col tempo in quel compagno di fatica, nel rapporto personale, non per un titolo sacro sopra di lui. Così il prete operaio ha contribuito, anche consapevolmente, alla demolizione del “clero sacro”, istanza evangelica sollevata nel Concilio, anche se poco riconosciuta nella successiva pratica ecclesiastica, fino a ritorni recenti di clericalismo. I preti operai hanno contribuito molto a ricondurre il ministero presbiterale nel corpo vivo del “popolo di Dio”, che è tutto profetico, sacerdotale, regale. Questo loro contributo deve rimanere. Non andarono in fabbrica a fare manovre di proselitismo o di alleanza politica, ma a vivere la vocazione cristiana nella umanità comune, la più affaticata e scartata. Si verificò anche tra loro il vasto fenomeno dei presbiteri che tornavano laici, ma non fu il fatto dominante tra i preti operai.

Nel taschino della tuta

Diceva Carlo Carlevaris che, quando era giovane, il “deposito della fede” gli riempiva un pesante zaino da portare sulle spalle, e che ora, invece, gli stava tutto in un taschino della tuta. Verissima e bella immagine. Il Concilio, la teologia, raccogliendo anche l'esperienza viva dei cristiani comuni (vedi Dei Verbum, n. 8), hanno individuato una “gerarchia delle verità” (Unitatis Redintegratio sull'ecumenismo, n. 11), cioè la distinzione tra verità primarie e secondarie (distinzione condannata da Pio XI nella Mortalium animos). Questa gradazione di centralità delle verità di fede non è solo per la pace e l'intesa coi cristiani non cattolici, ma è proprio in relazione «al loro diverso nesso col fondamento della fede», cioè con Cristo. L'esperienza dei preti operai, come quella di tanti cristiani laici, vede che la sostanza evangelica è un modo di essere, non un rito, è un tipo di relazioni fraterne col prossimo, non una morale codificata minuziosamente (e ossessivamente), è una fiducia nella salvezza di Dio per tutta l'umanità, ben oltre confini e barriere ecclesiastiche, è una speranza nell'amore misericordioso che annulla i calcoli sul merito e sul premio, nella piccola ragioneria di giorni e mesi di purgatorio, di indulgenze come sconti al supermercato. Oggi ci fanno pena quelle manie religiose, ma erano la tassa che tante buone persone dovevano pagare per sentirsi in pace con Dio. La laicità seria della fede messa alla prova della secolarizzazione ci ha salvato da una religione senza fede. In quella prova anche i preti operai hanno avuto una parte caratteristica, insieme ai laici più spirituali. Ma questo cammino di liberazione non è finito, e ha persino delle ricadute all'indietro. Insomma, i preti operai hanno lavorato per la dignità umana, da consapevoli e grati figli di Dio, non solo nella società, ma nella chiesa stessa. La fatica quotidiana, la solidarietà, sanno anche purificare la fede, fanno riconoscere come davvero Dio guarda e cerca i suoi figli, fuori dagli orpelli teorici e rituali di cui gli scribi riempiono zaini sulle spalle dei poveri, e stanno a guardare, e a giudicare.

Il rischio della sperimentazione

L'esperienza di questi nostri fratelli e compagni che sono vissuti in avanscoperta ci offre anche un'altra indicazione. Per lo più, la scelta di fare i preti operai fu una loro iniziativa autonoma, personale, una vocazione. A volte incontrarono incomprensione, anche impedimenti e divieti da parte dei vescovi. A Torino, sicuramente Pellegrino capì subito, condivise, incoraggiò la loro scelta, per la sua personale intelligenza cristiana nel tempo conciliare, e per l'autenticità di questi preti. Complessivamente, il loro fu un atto originale, un'assunzione di responsabile iniziativa, una presa di parola dignitosa, libera. Di questo c'era bisogno nella chiesa, a questo portava il Concilio ben compreso. Di questo c'è bisogno sempre, anche oggi. Senza fughe solitarie, la comunità ecclesiale, come ogni comunità umana, ha bisogno non di sudditi obbedienti e passivi, ma di liberi creatori di iniziative inserite nel cammino comune, anche assumendo il rischio della sperimentazione. Pellegrino diceva di preferire preti che, con serie intenzioni, gli davano problemi, a preti tranquillamente passivi. L'esploratore non va per un suo gusto solitario, ma per cercare una strada utile a tutti. Così furono i preti operai. Ma non solo loro: fu una stagione in cui nacquero molte comunità ecclesiali spontanee, dalle comunità di base più contestative, a realtà di chiesa sul territorio, a carattere popolare, in aggiunta alle parrocchie, ma libere dai loro compiti burocratici. Queste comunità avevano il vantaggio di realizzare rapporti personali e di partecipazione più diretta, con presenza di preti (anche proprio i preti operai) in condizioni di assoluta parità decisionale con i laici e le laiche, pur svolgendo le loro funzioni sacramentali. Furono reali esperienze di collegialità, di sinodalità effettiva, coi limiti e difetti di tutte le cose umane, ma belle indicazioni di superamento della vecchia chiesa clericale-piramidale. Queste realtà, oggi rimaste poche, per un certo tempo si collegarono in un attivo “progetto comune” nella chiesa torinese. Così, il consiglio presbiterale, e ancor più il consiglio pastorale, includente laici e laiche, esercitarono una vera collaborazione col vescovo, non una consultazione formale.

Una esperienza anticipatrice

Una importante realizzazione dello spirito sinodale fu il lavoro ampio e di base con cui, a partire da un testo di proposte detto “documento Carlevaris”, nacque, dopo una larga consultazione, la famosa e originale lettera pastorale di Pellegrino, “Camminare insieme” (dicembre 1971). Se rileggo questo documento, vi riconosco alcune frasi, incisi, sottolineature nate proprio da emendamenti proposti e accettati dalla maggioranza entro assemblee ecclesiali molto numerose, per esempio nel salone di via XX Settembre. Pellegrino accolse responsabilmente e rimodellò secondo il pensiero proprio, tutto il lavoro di proposta che gli fu offerto con quella ampia collaborazione spontanea. Questa rimane una esperienza anticipatrice di un modello di chiesa sinodale, opera di molti, che ebbe un promotore in Carlo Carlevaris. Quella dei preti operai fu una scelta dei poveri, per i poveri, un passo esistenziale di quei preti verso la chiesa dei poveri, punta profetica del Concilio. Oggi, ricordare le persone e la vita di quei preti, e di chi sentiva e agiva con loro, deve solo farci chiedere: chi sono i poveri di oggi? dove sono? e noi discepoli di Gesù siamo con loro?

Enrico Peyretti

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