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 455 - Pier Giorgio Ferrero, parroco / 1

 

IL REGNO DI DIO, QUI, ORA

 

In gennaio è morto don Pier Giorgio Ferrero, parroco per 20 anni alla parrocchia dell'Ascensione, per 18 anni a Moncalieri, alla san Vincenzo Ferreri. Lascia un fecondo ricordo presso quelli che lo hanno conosciuto. Ma di lui abbiamo anche 28 libretti (in tutto circa 3000 pagine): commenti alla Bibbia, riflessioni, esperienze.

La sua proposta, il suo "programma"? Accogliere il progetto di Dio, il sogno di Dio, il Regno di Dio. E questa scelta viene espressa con un linguaggio semplice, accessibile a tutti. Il messaggio di Pier Giorgio è umile, senza pretese, aperto al dialogo e alle critiche. Non usa toni da "profeta", da "ispirato". E' attento a non lasciarsi prendere da facili entusiasmi. Il suo riferimento non è la propria persona ma è la Chiesa, la Chiesa universale che si manifesta nella chiesa locale, la parrocchia.

 

«E noi, oggi, qui?»

Sovente le riflessioni e le letture bibliche sono interrotte da domande incalzanti: «E la nostra comunità, qui, oggi? In che cosa siamo comunità e in che cosa non lo siamo ancora? Siamo impegnati nelle lotte per la giustizia?». Un punto rimane fondamentale: «La nostra comunità, il nostro essere credenti, ha senso se e in quanto punta a realizzare qui e ora ‒ in questo periodo storico e in questo settore geografico di Torino, nel nostro quartiere ‒ il Regno di Dio».

Che cosa ci può guidare in tale cammino? La Bibbia: ascoltare, dare credito, aprirla come se si incontrasse una persona cara e stimata. E la Bibbia ci insegna a «guardare la vita con gli occhi di Israele». Infatti «la Storia di Israele è storia ordinaria come la nostra e i miracoli e prodigi narrati non sono per lo più che "modi di dire", "rivestimenti culturali" (quindi non capitati, non veri, non storici) ma che trasmettono la realtà vera, storica, straordinaria che è la presenza salvifica di Dio nella storia».

Questa "purificazione" dello sguardo dalla lente deformante del "prodigioso" ci porterà a scoprire che «anche oggi, nella nostra vita personale, nei fatti attuali, piccoli e grandi, avvengono ancora delle cose meravigliose perché Dio continua a parlare e ad agire anche oggi: ma per accorgercene occorre avere orecchie e occhi profetici, cioè la capacità di fede che sa penetrare oltre il visibile e sa cogliere la "bella notizia" nascosta in ogni "evento"».

Per questo occorre riscoprire la nostra capacità di «stupirci», meravigliarci anche di quelle cose che siamo abituati a sentire mille volte in chiesa. Dio ha avuto il «coraggio» di venire in questo mondo, mondo da cui noi talvolta avremmo voglia di uscire. Fragile come noi, come tutti i bambini, «un bambino che ha fame e sete e vive del latte della mamma, un bimbo che quando ha bubù nel pancino urla come tutti i bimbi di questo mondo. Dio, diventato come uno di noi, ha dato valore divino a tutte la banalità della vita quotidiana: un Dio che quindi sa che cosa vuol dire tribolare nel lavoro, essere traditi dagli amici, non riuscire a portare avanti un progetto, la tristezza di finire la vita in un fallimento». Ma come non provare stupore? «E se Dio ci sta a vivere questa nostra vita, la vita umana è sempre degna di essere vissuta, in qualsiasi condizione!».

E come possiamo "pregare"? Dove? «In chiesa?» «Il "luogo" della preghiera è la vita, la storia. L'argomento della preghiera sono gli avvenimenti, le mie vicende personali, i fatti piccoli e grandi della TV. Il primo libro di preghiera è il giornale!». Quelle che sembrerebbero "distrazioni" sono la preghiera autentica!

 

Tutto può diventare sacramento.

Se partiamo dalla definizione di "sacramento" come «segno efficace della grazia», tutto può diventare sacramento. «Se avessimo la capacità di leggere i fatti, grandi e piccoli, lieti e tristi, della vita personale, familiare, sociale, ecclesiale, in luce di fede (nonostante l'inevitabile ambiguità delle realtà create ‒ fatti e persone ‒ che sono sempre un misto di bene e di male e che quindi richiedono sforzo di discernimento) tutto diventerebbe "sacramento", segno e dono di grazia, di perdono, di vittoria di Dio contro il male».

Prima di tutto, il creato! «La creazione tutta è sacramento di Dio, segno efficace del suo amore». Poi abbiamo Gesù Cristo. «L'umanità di Gesù (la sua figliolanza divina è invisibile) è davvero il segno visibile ed efficace di ogni grazia salvifica di Dio».

Un altro sacramento è la Chiesa, Chiesa universale, presente in ogni comunità, anche le più piccole. Nel nostro territorio noi siamo Chiesa. «Tutto ciò che la nostra comunità è e fa diventa sacramento di salvezza. Il suo esserci, il suo modo di porsi nel territorio, il suo modo di vivere, la sua attività, la catechesi, i gruppi, i corsi biblici, i vari ministeri, i servizi, anche i più umili, tutto è chiamato a essere segno efficace di grazia. Partecipare solidalmente al comitato di quartiere in lotta per una città umana più giusta e più fraterna, può essere segno efficace di Grazia più della celebrazione di un sacramento. Grandissima dignità e grandissima responsabilità, perché possiamo anche tradire questa missione».

E infine, buoni ultimi, i sette sacramenti. E anche questi vanno visti in funzione della comunità. «Con il battesimo si entra nella comunità. Con la cresima ci si impegna a lavorare nella comunità. Con l'eucaristia giustamente ci si siede a tavola alla mensa del Signore nella comunità». Non possiamo accostarci alla comunione «senza avere "lavato i piedi ai fratelli", senza aver condiviso, senza avere perdonato e avere cercato la riconciliazione». Il Matrimonio non è "sposarsi noi due davanti a Dio" (Dio c'è anche in Municipio), ma "sposarsi in chiesa", cioè «davanti alla comunità per dire che si vuole vivere insieme come marito e moglie per dare testimonianza di amore nella comunità».

«Pertanto i sacramenti non sono cose da fare, obblighi da assolvere, pratiche da sbrigare; sono appuntamenti, incontri con Gesù. Anche il nostro modo di esprimerci dovrebbe avere questo "calore" di incontro personalizzato. Non "Vado a Messa"; ma "Vado ad ascoltare quello che Gesù vuol dirmi oggi... vado a mangiare da Lui».

 

Una parrocchia che «disturba».

Dove sarebbe sorta la parrocchia dell'Ascensione del Signore, fino a poco prima, pascolavano le pecore. Ma stavano sorgendo grandi casoni. Quindi, non c'erano tradizioni precedenti con cui si dovevano fare i conti. E si era in pieno fermento del "dopo-Concilio" e "dopo-'68". Era il momento di fare delle scelte in linea con i tempi "rivoluzionari".

1) I due preti della parrocchia insegnavano religione presso la scuola media statale. In seguito si credettero in dovere di rinunciarvi adducendo la seguente motivazione: «Con l'insegnamento obbligatorio e remunerato della religione cattolica nelle scuole, voluto dal Concordato, i cattolici accettano di fatto una situazione politicamente ed economicamente privilegiata, che è contro lo spirito evangelico».

2) Il rifiuto della congrua, lo "stipendio" dei preti. «Una religione comunque finanziata dallo Stato, è di fatto "compromessa" con il potere economico-politico... La Chiesa accetta aiuti, ma si priva di "libertà"... La Comunità si impegna a contribuire alle spese della parrocchia e al mantenimento dei preti in modo volontario e anonimo». L'arcivescovo Pellegrino rispettò la decisione, ma contestò le motivazioni: «Nego che l'accettazione della congrua sia di per sé un impedimento alla piena libertà della Chiesa; se così fosse, mi sentirei io per primo obbligato a rinunciarvi».

3) Rifiuto di costruire una chiesa col contributo dello Stato. Si prese in affitto un seminterrato che rimaneva anche a disposizione del quartiere per assemblee e spettacoli. Alcuni anni più tardi si iniziò la costruzione di un nuovo edificio con contributo finanziario e di "lavoro" da parte esclusivamente dei parrocchiani.

4) Si rifiutano le "opere cattoliche" come erano gestite in molte parrocchie: dall'asilo all'oratorio, dal cinema alla piscina, dalla scuola professionale al consultorio, con preti e laici impegnati anche a tempo pieno in tali strutture. Si propone invece ai credenti di «inserirsi nelle strutture pubbliche, politiche, sindacali, di servizio sul territorio (quartieri, consultori, centri d'incontro) per essere "sale e fermento" della massa senza etichetta ufficiale di cristiani». La comunità cristiana non è più "cittadella" in competizione con il mondo ma «lievito, sale, in "comunione con il mondo" per dargli sapore e comunione dal di dentro. Nella comunità di fede i cristiani così in "diaspora" ritornano per incontrarsi nella gioia con i fratelli di fede, per leggere insieme la Parola di Dio, per celebrare nell'Eucarestia le meraviglie del Signore, per pregare, per confrontare insieme ‒ nei gruppi di revisione di vita ‒ il proprio cammino».

5) Ci furono altre occasioni di dissenso tra la parrocchia e l'arcivescovo Pellegrino. In comunità si era iniziata una pur timida discussione sull'opportunità di somministrare il battesimo in età adulta. Ma il vescovo se la prese, anche se il problema era presentato a livello solo teorico. Uno scontro più vivace si ebbe in occasione di uno spettacolo di Franca Rame allestito nei locali del seminterrato. Risuonarono nel locale anche delle "parolacce" e si presentarono ragazze in abiti succinti. Il vescovo si arrabbiò. In un'occasione ci fu invece piena consonanza tra la parrocchia e Pellegrino. Si trattava dell'esigenza di separare nel matrimonio il rito civile da quello religioso.

6) Tuttavia le contestazioni più forti provenivano da alcuni parrocchiani. «I preti fanno politica, politica di sinistra, parlano di lotta di classe... Se abbiamo migliorato la nostra condizione e siamo arrivati ad avere un alloggio, una macchina, una posizione, è perché lavoriamo sodo, con grandi sacrifici, mentre tanti rimangono poveri perché non lavorano, sono irresponsabili, spendaccioni». Ma molti dei critici preferivano non parlare, correvano in curia a riferire... E il vescovo ascoltava.

Perché tutte queste incomprensioni? «Il motivo di fondo era il timore che la contestazione sessantottina e post-conciliare delle Comunità di Base salisse a livello di parrocchia. E che dalle parrocchie di città dilagasse nelle campagne. C'era il timore di spaccature nel clero e forse richiami da Roma. Ci si diceva: "Ci vuole tempo..." e si sperava che nel giro di dieci, quindici anni, si vedesse un cambiamento... invece c'è stato il ritorno al Concilio Vaticano I».

E ora, ai tempi di Papa Francesco, possiamo rivolgerci ancora le pressanti domande di don Ferrero: «E noi, qui, oggi?».

(continua)

Dario Oitana

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