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 456 - Percezione e istruzioni per l’uso

 

La politica della paura

Come diceva Napoleone, sono due i modi per far muovere gli uomini: l'interesse e la paura. Nel governo giallo-verde la componente gialla (5 stelle) è più rivolta all'interesse (reddito di cittadinanza...), mentre quella verde (Lega) a far leva sulla paura dello straniero, profugo, migrante.

Nel Carroccio non aleggia tanto lo spirito di Alberto da Giussano, ma quello di Lepanto (mamma li turchi!), per sconfiggere «l'invasione» africana, non più ottomana ma pur sempre musulmana: la battaglia è guidata dal capo-popolo Salvini, novello Cola di Rienzo contro i baroni, ladroni e buonisti, novello Robespierre contro il decrepito (a suo dire) «Ancien Régime» dell'Unione Europea che opprime il terzo stato (popolo).

 

Intimoriscono le cure, non le malattie

La paura è una reazione difensiva ancestrale, potenzialmente utile per scongiurare il pericolo, comune a tutte le specie viventi nell'evoluzione di milioni di anni. Oggi tuttavia essa sembra ormai aver perso la sua connotazione di concreta utilità per radicarsi in motivazioni inconsce irrazionali difficili da decifrare. Anzitutto quali sarebbero le paure manifeste per quanto concerne l'Italia?

Prescindendo dalla paura dei terremoti e del crollo dei ponti (o dei soffitti delle scuole), minimo è il timore di un conflitto nucleare, nonostante sia stato sbandierato dai media e dai social a proposito del nord-coreano Kim che potrebbe colpire la costa ovest degli Stati Uniti: potrebbe forse bombardare il Giappone, ma non la California in quanto nella traiettoria parabolica suborbitale che raggiunge un'altezza notevole (fuori dall'atmosfera), quando il missile con la testata (convenzionale o atomica) rientra in atmosfera si sviluppano circa 2000 gradi; al riguardo Kim non possiede la tecnologia ultrasofisticata che richiede tempi lunghi (scudo termico di protezione ecc.; il gelo sulla rampa di lancio di Cape Canaveral aveva gravemente danneggiato lo scudo della navetta Columbia, causandone in fase di rientro l'immane disastro del 1 febbraio 2003 con sette astronauti disintegrati o liquefatti). Non rilevante è il terrorismo che ha risparmiato il nostro paese, mentre ha colpito quelli viciniori (Francia, Inghilterra, Germania, Belgio), tanto da favorire certe insinuazioni velenose: come quella del patto fra la ndrangheta (fornitrice di armi) e l'Isis, a condizione di non toccare l'Italia per non compromettere la sua rete mafiosa (verità, o leggenda metropolitana?).

Non sembra intimorire la diffusione di nuove malattie epidemiche (Aids, “Mucca pazza”, SARS, Resistenza dei batteri agli antibiotici), ma i vaccini sì, poiché toccano il “particulare” concreto della propria prole. È paradossale: non fanno paura le malattie infettive (morbillo...), ma le cure preventive, ossia la medicina occidentale che, coi suoi antidoti (vaccini ma non solo) ha debellato malattie devastanti come il vaiolo e la poliomelite; e la narcosi chimica (anestesia, questa sì qualche rischio serio lo comporta, mentre gli eventuali effetti collaterali dei vaccini sono comunque curabili) ha permesso il notevole sviluppo della chirurgia e dei vari tipi di sedazione (compresa quella conscia). Abbandonando completamente la logica razionale, scientifica e documentata, ci si rivolge a cure alternative che sono acqua zuccherata senza principi attivi, con tutt'al più qualche vitamina (come il Cebion nella cura Di Bella). Non pare allarmare troppo lo spread, anche perché la stragrande maggioranza della gente non sa di cosa si tratti concretamente.

 

I soldi bruciati in borsa non spariscono

Invece le strategie economico-finanziarie (negli investimenti e nelle speculazioni in borsa) hanno prodotto insicurezza, mandando a rischio default alcune banche italiane. Quando una grande fabbrica decide di chiudere uno dei suoi stabilimenti, la paura fa novanta: dove e quale sede, a chi la tocca? Oppure quando una azienda cede capitale e struttura a un'altra, magari straniera, che ha criteri manageriali diversi. Gli imprenditori cercano redditività chiedendo ai governi nazionali e alle istituzioni internazionali, nell'ambito della “libera iniziativa”, regole meno vincolanti e impegnative nei confronti dei lavoratori, con la promessa di una maggior crescita complessiva. Chi sente minacciati i propri risparmi, il lavoro e certi diritti che si ritenevano acquisiti, reagisce spesso aggressivamente (come nel dar fuoco a un campo Rom) odiando i soggetti che gli fanno paura (ad es. accusandoli di «rubarci i posti di lavoro» e quindi «prima gli italiani»). Oltre all'insicurezza della condizione sociale, c'è pure la paura molto concreta e visibile per la diffusione della microcriminalità, prima collegata alle tossicodipendenze e poi ai migranti, oggi riuniti insieme nei pusher. Tutto quel che abbiamo detto crea un affannoso stress psichico che fa crescere a dismisura la percezione di paura, molto al di là della dinamica reale dei fatti; si crede che le azioni trasgressive e aggressive siano sempre in aumento, mentre alcune di esse sono addirittura in contrazione. (Per quest'ultimo paragrafo cfr. Italo De Sandre, La paura individuale e collettiva nel contesto sociale attuale, in «Servitium» 238, luglio/agosto 2018, «Paure e speranza», pp. 34-37).

Quando ha luogo una giornata nera in borsa, i quotidiani escono il giorno dopo in prima pagina con l'apertura a caratteri cubitali: «Bruciati 2-3 miliardi...». Ma, come in fisica per il principio di conservazione dell'energia, tale importo bruciato complessivamente per molti, è finito in altre e poche mani, poiché preventivamente incassato in precedenza. Quel che in molti perdono, pochi lo hanno guadagnato: nulla va perduto.

Si vuole mantenere la diseguaglianza su scala globale (a nostro vantaggio, a favore del Nord del mondo), e si teme che essa appunto possa essere colmata (a nostro svantaggio). Tutt'al più si concede, o nel migliore dei casi si auspica, una più felice distribuzione del benessere su scala mondiale, ovviamente a patto che restino nei loro paesi, come nello slogan «aiutiamoli a casa loro». Questo auspicio dei populisti (il termine classico sarebbe demagoghi) sembra essere l'ultimo residuo rimasto della tradizione civile europea (si pensi agli imperativi kantiani) coi suoi ideali assiologici (valoriali) che sembrano liquefatti nei sovranisti. Il sommo valore (o disvalore) pare quello di avere il portafoglio gonfio per spendere e comprare: col suo luccichio il consumismo abbaglia e obnubila le menti; a Torino certe famiglie non trovano di meglio che passare quasi tutta la domenica all'Ikea (una cittadella supermercato alla periferia del capoluogo subalpino). Per quel che può valere uno slogan, il suddetto potrebbe funzionare con un'aggiunta: «Aiutiamoli a partire da casa loro», ossia non i muri contro l'invasione, bensì aiuti e accordi coi loro governi in partenza, anche per stroncare la traversata di un paio d'anni sino alla Libia con violenze e torture di ogni genere (dov'è la pacchia?). C'è inoltre la delocalizzazione all'estero, ma anche all'interno, ossia la mobilità e flessibilità: non è piacevole, soprattutto nelle banche, sentirsi dire: «Lei è trasferito nella sede di... (caso mai distante 300 kilometri); o mangiare questa minestra...».

 

Oggi tutto deve essere smart

Tali paure a volte vengono esorcizzate con una contro-fobia, quella di coloro che infliggono a se stessi la continua sfida di sport estremi, di prove fisiche da superare, come fanno ad es. certi adolescenti, sia con giochi casalinghi a volte mortali, sia correndo sul bordo di un precipizio o a folle velocità nelle (auto)strade. Certo c'è la disoccupazione giovanile, della quale tuttavia un certo numero di giovani non sembra preoccuparsi troppo poiché vive ancora delle risorse dei suoi genitori; il principale interesse sembra essere la perpetua connessione alla Rete, ma con l'ultimo modello di smartphone, guardandone il video anche in bicicletta sui marciapiedi (l'inglese smart, cioè super-attivo, brillante, alla moda, con a volte anche un connotato [sic] di intelligenza, come nell'espressione smart card, carta intelligente: sintomatico che l'intelligenza sia relegata nelle carte di credito).

Nei bar se ne sentono di tutti i colori, ma quasi tutte di matrice salviniana: «È giusto chiudere i porti, ancor meglio il blocco navale! L'Inghilterra è stata furba nell'uscire con la Brexit; le nazioni che non sono entrate nella comunità europea stanno meglio di noi», sino al punto che certi tifosi italiani, nella recente finale dei mondiali di calcio in Russia, hanno fatto il tifo per la Croazia perché metà della nazionale francese è di colore. Tutte queste paure si accumulano e si scaricano proiettivamente all'esterno contro lo straniero alle porte; dalla diffidenza si passa in modo massiccio alla repulsione, e solo raramente a un minimo di empatia: come quando, alla fine di un discorso su un migrante, si concede: «Però è bravo!».

Ma c'è speranza; come quel giovane africano che scherza (ricambiato) con un anziano signore italiano, il quale aveva espresso commenti alla fine di un incontro di calcio: «Ma cosa vuoi commentare tu, che hai dormito per quasi tutta la partita! Inutile discuterne, perché è rigore quando l'arbitro lo fischia», rendendo in perfetto italiano la battuta slavizzante (senza articoli) del compianto V. Boskov («Rigore è quando arbitro fischia»). L'uso del ne enclitico (discuterne) è segno di notevole integrazione (non solo linguistica; non è un intellettuale, ha un banco al mercato e non è nato in Italia), poiché costituisce l'ultima è più difficile acquisizione della lingua italiana.

La nostra situazione non è molto dissimile dalla città portuale (l'allusione è puramente voluta, in quanto fotocopia ante litteram delle migrazioni attuali) di Corinto, che ai tempi di Paolo era uno dei centri nevralgici (Atene era in decadenza), con un meticciato gigantesco delle più diverse etnie provenienti dalle più svariate zone geografiche. Alla comunità di Corinto Paolo ha scritto ben tre lettere (di cui una andata perduta), parificando tutti (semiti, camiti e indoeuropei) nel superamento di tutte le differenze identitarie. Oggi scriverebbe: «Non c'è giudeo né greco... [Galati 3,28: il più (Non c'è più) si trova solo in un frammento di papiro, peraltro molto antico], non c'è bianco né nero, non c'è europeo (italiano) né africano, né islamico né cattolico, ma la salvezza è offerta a tutti, qualunque sia il retroterra socio-culturale di coloro che bussano alle nostre porte, meglio ai nostri porti».

Mauro Pedrazzoli

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