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 456 - P.G. Ferrero, parroco / 2

 

LA DEBOLEZZA DI DIO

Uno dei più impegnativi compiti che don Ferrero si prefigge consiste nel togliere la maschera alle maschere di Dio. Tali maschere possono essere espressioni della mentalità comune o anche affermazioni teologiche derivanti da interpretazioni incomplete e distorte della Bibbia.

 

Le principali sono: il "Dio padrone, il Dio guardone, il Dio vendicatore, il Dio capriccioso, il Dio fato, il Dio ragioniere, il Dio vampiro, il Dio narcisista, il Dio architetto".

 

Dio non risolve i nostri problemi.

Ma il tratto più evidenziato dalla Bibbia, esperienza chiave della fede israelita, è: "Dio difensore dei poveri". Ma questo è il comportamento  di Dio («Che cosa fa Dio, oggi, a favore dei poveri?») o non piuttosto un programma per noi?

   Ma che cosa ha fatto Gesù? Non si è messo «dalla parte dei poveri lottando contro i ricchi», ma «si fa lui stesso» povero, disgraziato, maledetto. E' una scelta ancor più radicale.

  La  ricerca del volto di Dio, liberato da qualsiasi maschera, anche dalle maschere "progressiste",  si presenta appassionata, drammatica, sconcertante. E comporta una grande fede. Poiché «credere senza farsi domande, senza avere dei dubbi, è più ingenuità che fede». «Credere alle promesse di Dio, alla sua parola che ci indica valori contrari alla mentalità corrente, fidarsi della parola di Dio senza alcun riscontro storico visibile: questa è fede!».

  Attraverso Gesù, Gesù in Croce, «arriviamo a conoscere un Dio che perdona, un Dio che è debole, un Dio che ci lascia andare fino in fondo, un Dio che è diverso da come lo vorremmo noi». Entrando nella «pazzia» e nella «debolezza» di Dio, siamo portati a «entrare nei dolori della gente e a soffrire l'assurdità del male». Gesù non ci toglie la croce, non risolve i nostri problemi, «cammina accanto a noi con la sua croce». Il Dio incarnato prova i nostri sentimenti, le nostre difficoltà, è un Dio «che è tentato, un Dio che si lamenta e urla, un Dio che suda sangue e chiede aiuto agli uomini; un Dio che ha paura, che è debole, un Dio che non fa miracoli per risolvere i "suoi" problemi; e non risolve neppure i "nostri" problemi, non soddisfa i bisogni dell'uomo».

   Se abbiamo la sensazione che Dio sia lontano, che ci abbia lasciati soli, questa è davvero un'impressione reale: «Dio ci lascia veramente soli, in balia delle leggi della natura e della malvagità umana. Dio, creando il mondo con le sue leggi e creando l'uomo con la sua libertà, si è come autolimitato nella onnipotenza e non interviene neanche quando le leggi fisiche, chimiche, atomiche, gravitazionali si scatenano sull'uomo provocando disastri. E neppure ferma la mano dell'uomo che sta per sganciare la bomba atomica. Accettare questa assenza di Dio nei fatti della storia  è segno di fede matura, che non scarica su Dio le responsabilità umane e sa riconoscere la giusta autonomia dei fenomeni naturali e delle scienze che li studiano. Tutto procede come se Dio non esistesse. E' terribile, ma è la realtà». Ma allora, che senso ha invocare la benedizione di Dio? Forse possiamo chiedere solo che «noi uomini sappiamo prenderci le nostre responsabilità nei confronti della natura ("coltivare il giardino"); che sappiamo collaborare, condividere, crescere insieme; che sappiamo progettare un  futuro di vittoria sul male; che sappiamo vincere la disperazione e la depressione; che sappiamo credere nell'amore di Dio non perché vediamo e comprendiamo, ma perché Gesù così ha creduto».

   «Il Dio debole, il Dio che non si dimostra onnipotente, che non scende dalla croce e non fa scendere neppure noi, è un Dio che non ci piace. E' un Dio difficile il Dio di Gesù Cristo. La fede in Dio non semplifica i problemi, ma li complica: non rende più facile la vita, ma ci chiede più rsponsabilità».

 

Innamorarci di Gesù.

Don Ferrero era solito attribuire agli incontri con la Parola di Dio (specialmente quando si trattava di giovani) il nome di «deserto». Ma per "deserto" non si intende un luogo di silenzio e di meditazione. Al contrario: «nel frastuono del mondo, nell'agitazione delle cose, nei cortei degli scioperanti, nel rumore delle officine, in tutte le battaglie, c'è Dio che ci aspetta, che ha qualcosa da dire, da proporre». Come nel deserto Dio ha fatto maturare il  popolo ebreo e «gli ha insegnato l'uso  della libertà, una libertà che non è mai raggiunta, l'essenzialità delle cose, la semplicità e la povertà come valori, gli ha insegnato ad accettare il rischio del futuro, a non perdere la speranza, a superare l'insoddisfazione che ci fa ingordi»; così «anche la nostra vita è un lungo cammino dove Dio ci sta vicino e ci parla nei più svariati avvenimenti».

   Ora il nostro cammino è «conoscere Gesù». Ma in questo cammino può essere ostacolo «un modo troppo intellettuale di avvicinarci a Lui, troppo "teologico". Infatti lo accogliamo come l'uomo-Dio, il Figlio di Dio, il Redentore crocifisso e risorto. Però nell'incontrare una persona e per stabilire rapporti interpersonali non contano solo i "titoli" ufficiali, il ruolo sociale, le grandi imprese, ma giocano molti altri elementi: la fisionomia fisica, il carattere, i sentimenti, l'emotività, i piccoli gesti». Di tutto questo che cosa sappiamo di Gesù? Abbiamo nei suoi confronti un rapporto personale, caloroso, coinvolgente, di simpatia spontanea, di amicizia cordiale? Che cosa ci dicono i vangeli? Pochissimo. «Però qua e là, con rapidi accenni, i vangeli qualcosa colgono del suo aspetto esteriore e dei suoi tratti emotivi, qualche tratto del suo volto, qualche lembo del suo animo».

   1) Una giornata "tipo" di Gesù: un ritmo di lavoro che richiede resistenza alla fatica, «un fisico sano e robusto»; 2) Lo sguardo di Gesù: «osservazione critica della realtà, attenzione alle persone, sdegno, simpatia». 3) L'emotività di Gesù: «compassione, meraviglia, diffidenza, tristezza, tenerezza, gioia, delusione, pianto, ansia, amarezza, paura e angoscia». 4) Alcune qualità del carattere di Gesù: «chiarezza di idee, volontà decisa, realismo, prudenza, fedeltà alla parola di Dio, libertà dalle "mode" umane».  E possiamo anche porci una "strana" domanda: «Anche Gesù aveva dei difetti?». Forse...«La scappata di tre giorni a 12 anni; certe rispostacce alla madre; insulti ai farisei; discriminazione verso gli stranieri; violenza nel tempio».

   E' riuscito don Ferrero a «far innamorare di Gesù»? Egli teme di no. E' per lui un cruccio molto   maggiore dei problemi di salute. «Un cruccio certamente grande  è constatare negli adulti e   soprattutto nei giovani, l'incoerenza di vita. Che cosa ho fatto? Ho fatto che non sono riuscito a innamorarli di Gesù; che nonostante abbia dato loro tempo, fatica, soprattutto tanta amicizia, non ho saputo passare la mia convinzione più profonda, il segreto più geloso della mia vita, il tesoro trovato  in gioventù per il quale ho lasciato tutto, ho giocato l'intelligenza, le forze, ogni mio avvenire, cioè: che Gesù è la pienezza - che Gesù è il destino - che Gesù è il traguardo - che Gesù è la gioia - che Gesù è il modello di ogni uomo. Avere dentro questo segreto, esserne convinto, e non riuscire a comunicarlo alle persone che ami, questo è il cruccio, il tormento, la delusione che fa star male, il focolaio di ogni sofferenza».

   E' possibile reagire a questa delusione? «Nel mio piccolo, però, semplicemente, al grande cruccio  di non essere riuscito a passare agli altri l'innamoramento per Cristo Gesù intendo reagire in questo modo: vorrò fare sempre più "mio" l'interrogativo angoscioso di Gesù (che era il suo cruccio): "Quando il Figlio dell'uomo tornerà sulla terra troverà ancora fede?" (Lc 18,8)».

 

Povero, coi poveri.

«Dentro la realtà c'è Dio. Ma teniamo presente che Dio non sta in modo neutrale: è schierato da una parte della realtà. Mettersi dalla parte giusta per ascoltarlo vuol dire mettersi dalla parte dei poveri: è dentro i problemi dei poveri, è guardando dalla loro posizione che, a colpo sicuro, possiamo trovare Dio. I poveri sono la freccia che ci indica dove è Dio, non tanto per una scelta moralistica, non perchè siano più buoni, più puliti, più educati, più "amabili" - ma perché ne hanno più bisogno». Ma tutto ciò rischia di ridursi a belle parole se non viene calato nei fatti concreti, cioè "prendere delle decisioni". «"Non il pensiero ma l'assunzione di responsabilità è all'origine dell'azione. Penserete esclusivamente ciò di cui risponderete agendo" (Bonhoeffer)».

  Perciò prima di ogni proposta, iniziativa, programma, occorre chiederci sempre: «Ai più poveri è utile? E' comprensibile? Li interessa? Li libera? E se nelle nostre assemblee capitasse uno che non  riesce a parlare, né a presentarsi bene per mancanza di cultura e di mezzi economici, la nostra simpatia istintiva dovrebbe portarci a rivolgergli particolare attenzione».

    Una promozione  umana che ci colloca dalla parte dei poveri significa «non fare qualcosa "per" i poveri, ma facendo qualcosa "con" i poveri. Non opere per i poveri ma condivisione delle lotte e della vita dei poveri. Non abbiamo mai scoperto così profondamente cosa voglia dire essere poveri, come facendo la coda da un ufficio all'altro, insistendo e battagliando. Questa è la vita del povero: far la coda, scrivere, non ottenere, battere e ribattere alle porte».

  Ma, una volta che abbiamo cercato di essere noi testimoni della povertà evangelica, è giusto anche chiedere che la chiesa gerarchica sia una chiesa povera. «Pregare e desiderare che il Papa  1) non si ponga come autorità politica (capo della Città del Vaticano); 2) si liberi da tutte le forme di potere e di ricchezza accumulate nei secoli (guardie svizzere, spese di rappresentanza); 3) non accetti più certi titoli (Santità, Sommo Pontefice)». Di fronte alla ricchezza della chiesa gerarchica occorre «parlare in spirito di fede e di amore, soffrendo come figli davanti ai difetti dei genitori».

  Un ricordo. Quando i giornali riportarono che in Vaticano si era allestita una piscina per consentire a Woityla di fare qualche bella nuotata, Ferrero diceva con angoscia: «speriamo non sia vero!».

Quando Pier Giorgio dovette lasciare, per motivi di salute, la parrocchia di Moncalieri (2007), rivolse un "grazie" ai poveri «per i tanti che insistentemente, ogni giorno, hanno bussato alla porta della casa parrocchiale: famiglie in necessità estrema, barboni e immigrati clandestini, alcolizzati e drogati, nomadi di varie etnie, anche bugiardi e prepotenti. Molte volte ho pensato che era Gesù che  bussava, un Gesù scomodo e antipatico, difficile da accogliere nel modo giusto.  Questi poveri hanno disturbato e inquietato a tutte le ore, ma ringrazio, perché mi han fatto maturare dentro alcune convinzioni sapienti: come sia vasta e al di là del pensabile la miseria fisica, psichica, morale dell'uomo; come sia facile aiutare, ma difficilissimo promuovere a dignità umana; come è comodo parlare di Dio padre di tutti, purché il fratello diverso sia lontano».

Dario Oitana

[06-01-19 22:52 - admin]

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