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 457 - Salvini, Di Maio e il teologo sistematico

 

Caso Provenzano: alla ricerca di una migliore giustizia

Nel clima surriscaldato in cui si sviluppa oggi il confronto tra le correnti di pensiero, che animano la vita pubblica italiana, è diventata esca per frontali scontri ideologici persino la notizia che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato non conforme al rispetto di tali diritti il rifiuto dei tribunali italiani di sospendere il regime carcerario del 41 bis per consentire a Bernardo Provenzano di morire assistito dai familiari.

Poteva essere l’occasione per analizzare criticamente le ragioni che hanno portato due organismi giudiziari, eredi di un’identica cultura etico-giuridica, ma territorialmente diversi e con diverso grado di responsabilità sociale e culturale, a emettere sentenze tra loro opponibili a proposito di principi ad esse comuni.

Così purtroppo non è stato. Il Vicepresidente leghista del governo Conte, da buon sovranista, ha preso la palla al balzo per twittare all’istante: «Ecco un altro tentativo degli inutili e costosi baracconi con cui i burocrati dell’Unione Europea (Ue) pretendono di imporre la propria volontà alle singole nazioni. Non sia mai! Per l'Italia decidono gli Italiani, non altri!». Il contraltare grillino non ha potuto tacere e, impugnando l’ascia del giustizialista ad oltranza, ha tuonato a difesa del carcere duro: «Il 41 bis non si discute e tanto meno si tocca… Con la mafia nessuna pietà!».

 

Malevolenza e superficialità al potere

Risultato: un tandem di sciocchezze che, tanto Salvini quanto De Maio, se solo avessero letto e capito l’incriminata sentenza prima di aprire la bocca, avrebbero potuto facilmente evitare. Salvini, forse, rendendosi conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), con sede a Strasburgo, non è un organismo dipendente della Corte di giustizia europea (CGUE) di Lussemburgo, ma espressione di un’istituzione comunitaria ben più estesa e autorevole; Di Maio, ri-forse, che tale diversità comporta anche funzioni diverse per giurisdizione ed esecutività delle sentenze delle due Corti.

La Corte di Strasburgo infatti è nata nel 1950 dall’accordo tra i 47 stati che formavano allora l’intera Europa (Russia compresa) col compito di monitorare l’applicazione in Europa della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”, approvata dall’Onu nel 1948. Quella del Lussemburgo è diventata organo effettivo dell’Unione Europea (28 nazioni) a partire del 2009, dopo essere stata corte della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), costituita a Parigi nel 1952 da 6 stati: Italia, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania Occidentale e successivamente della Cee (Com. Eur. dell’Energia).

È per insipiente supponenza che Salvini, credendo di prendere a schiaffi la UE (Francia e Germania in primo luogo), ha, più o meno direttamente, preso a schiaffi l’Onu, e che Di Maio, per darsi l’aria di custode del 41 bis, lo ha seguito trascurando il fatto che, mentre la Corte Ue ha la funzione di controllare il rispetto delle regole comunitariamente stabilite e di sanzionarne la violazione, la Corte Europea dei diritti deve monitorare la corretta applicazione di tali diritti da parte dei tribunali penali e civili dei diversi stati e segnalarne le eventuali violazioni, affinché gli organi giurisdizionali degli stessi valutino modi e tempi delle opportune modifiche.

 

L’ala integrista dell’arcangelo Michele

Se sovranisti e giustizialisti politici fossero i soli avversari dell’applicazione dei Diritti dell’uomo nell’ordinamento giuridico dello Stato, qui potrei concludere. Purtroppo così non è. Ai dioscuri del governo dell’Italia repubblicana non è mancato l’appoggio sollecito dei teo-ideologi del tradizionalismo religioso. Ce ne offre un saggio un professore di Teologia sistematica che ha fatto circolare una dichiarazione sconcertante, così conclusa: «Sono europeista, ma pronunciamenti sgangherati come quello della Corte Europea non propiziano certo la mia passione pro Europa».

Sia chiaro da subito, don ***, da buon sezionatore di dogmi e tessitore di inossidabili dottrine, non si è preso la libertà di sputar sentenze su atti giudiziari pubblici senza leggerli e senza aver presenti gli elementi fattuali e materiali della situazione da essi esaminata. Ha ricordato la rilevanza criminale del capomafia corleonese, la molteplicità e l’efferatezza dei suoi delitti, come esecutore e come mandante; la lunghissima latitanza, facilitata dall’uso costante di indiscutibili potenzialità corruttive; l’esplicito e beffardo rifiuto di ogni confronto sui tragici fatti a lui contestatiti; l’incongruenza tra la durezza della condanna a 20 ergastoli e l’eventuale longanimità della sua sospensione; il pericolo che la pietà per un moribondo potesse venir considerata una convalida della potenza e dell’invincibilità della mafia. Per altro verso, ha invece ricordato l’età avanzata, il peggioramento progressivo della salute del boss dei boss, la perdita della lucidità e della mobilità, l’attestata impotenza a nuocere, la prossimità della morte, la pena di doverla affrontare lontano dai familiari.

Teologo di vecchia scuola platonico-aristotelica, vagamente tomista, sa che senza materia caduca le idee-sostanza, concepite immutabili dall’Eterno, nell’aldiquà terreno, non operano. Si guarda bene, dunque, dal sottovalutare il peso di tanti e gravi fatti storici, materiali e caduchi. Sa però anche che ogni azione terrena non può prendere forma di concreti eventi senza seguire i principi costitutivi che la regolano e la legittimano. E sa pure che da ciò consegue l’assunto logico-inderogabile: «Si dà degenerazione nell’agire umano solo e sempre in quanto già c’è stata degenerazione nei principi costitutivi dell’idea-sostanza originaria ‘uomo’».

 

Sconcerto metafisico

«Stando così le cose» non è difficile capire che l’anziano e dotto presbitero è sconcertato dalla decisione della Corte dei diritti dell’uomo, non tanto a causa della gravità dell’accaduto, quanto della sostanziale degenerazione buonista dell’idea di giustizia, messa in luce dalla Corte europea. Apre, infatti, le proprie considerazioni con una citazione tratta da uno degli oltre 2000 scritti di Xavier Tillette, filosofo e teologo francese del Novecento, che egli ritiene «un autorevole e perfetta diagnosi dell’esercizio europeo della giustizia»: «Qui occorre censurare un atteggiamento deleterio, che imperversa nonostante l’orrore di tanti fatti di cronaca. Mi riferisco all’indulgenza manifestata nei confronti dei peggiori malfattori, accompagnata dall’indifferenza per le vittime. È una perversità moderna, che recide la verità del pentimento e dell’espiazione. La legge favorisce ormai la banalizzazione del crimine e trasforma in male assoluto la repressione del male. Si denunciano le condizioni pietose dei carcerati più di quella dei parenti delle vittime. La giustizia gioca sempre a favore del colpevole e la condanna a priori del carceriere vanifica la moralità».

Così apre e così chiude, rilanciando con sue parole l’anatema del suo maestro francese: «Vorrei solo osservare che questi dottissimi, espertissimi ed equi giudici (della Corte Europea) soffrono di miopia e di parziale cecità. Invece di applicarsi ai numerosi casi ben più gravi di comportamenti inumani e degradanti, affrontare i quali può essere pericoloso, vanno a caccia di piccole o, nel nostro caso, di presunte violazioni (dei diritti umani). Inoltre sono del tutto incapaci di avere un occhio per le vittime. Pazzamente e perdutamente innamorati di Caino non si curano del povero Abele il cui sangue invoca invano più che vendetta, giustizia».

 

Usi discutibili e indiscutibili abusi

Come si vede il nostro teologo sistematico, pur continuando a non distinguere la Corte di Strasburgo da quella di Lussemburgo, si tiene ben lontano dalla superficialità falsificatrice di Salvini e Di Maio. Abbozza un doveroso tentativo di ragionamento che colleghi principi ideali e fatti reali, ma lo sviluppa come se principi e valori umani fossero assoluti, immutabili ed eterni, tali da imporre alla molteplicità di fatti e situazioni esaminate un’unica soluzione positiva e da indurre a considerare tutte le altre falsità potenzialmente demoniache.

Non c’è da stupirsi, dunque, se l’integrismo teologico di ***, finisce coll’offrire sostegno religioso al massimalismo dei politici sovranisti e giustizialisti. Piuttosto bisogna chiedersi se una corretta analisi critica delle due contrastanti e discutibili sentenze abbia prodotto, sull’uno e sull’altro fronte, prese di posizione meno drastiche e negative. Alle non molte rese pubbliche provo a suggerirne un’altra a completamento della dichiarazione di Claudio Fava presidente dell’Associazione Antimafia Siciliana: «Se fosse dipeso da me, giunto alla soglia della morte, Provenzano poteva chiudere gli occhi in modo più umano che in una stanza d’ospedale guardata a vista e blindata. Il giorno in cui saremo in condizione di fare a meno del 41 bis sarà una vittoria sia dal punto di vista della sicurezza che da quello dell’umanizzazione della pena».

La sintetizzo così: le vittime di Bernardo sono morte a seguito di spietate violenze, uccise anche crudelmente, ma la giustizia non può più essere ‘occhio per occhio’ e ancor meno ‘vendetta trasversale’. Deve punire e anche tentare di rieducare e di reinserire il colpevole nella società. Si può recuperare alla vita un ultraottentenne che fino all’ultimo ha rifiutato il dialogo e ha finito col perdere ogni possibilità di rapporto umano cosciente? In linea di principio bisogna ipotizzare per lui una morte più serena. Ma bisogna anche tenere presente che ogni frutto dell’agire umano (la nascita, il gioco e il lavoro, il divertimento e la fatica, il proteggere e l’offendere, il perdonare, l’amare) oltre che atto personale è anche atto sociale. Così è per la morte, evento eminentemente individuale, ma inevitabilmente anche sociale: la morte sua, la morte tua e la mia; la prima e l’ultima morte della storia umana.

Aldo Bodrato

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