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teologia
344 - VERITÀ CRISTIANA AL PLURALE |
UNO, DUE, TRE, QUATTRO…
Spesso accade davvero come ne La lettera rubata di Poe, quel che più si trova in bella vista finisce per divenire la cosa meno notata. Forse non è tempo sprecato dunque, in rapporto alla realtà cristiana, soffermarsi su un fatto che sta sotto gli occhi di tutti ma la cui forza dirompente, probabilmente proprio per questa abbagliante evidenza, scivola sovente nell’ombra. |
Abbiamo quattro Vangeli non uno: questa è l’ovvietà in questione. Un’ovvietà che nel parlare comune spesso si dissimula nel riferirsi e nel pensare al Vangelo come a un blocco unico che li comprende tutti e quattro, una sorta di ipertesto costituito dalla semplice giustapposizione di tutte le parti, con l’inclinazione a credere che si tratti di quattro scritti praticamente intercambiabili, e che ogni frase presente nell’uno potrebbe tranquillamente venire aggiunta a un altro nel quale è assente, senza mutare alcunché degli equilibri e del significato di fondo.
Il fatto che i Vangeli – canonici naturalmente – siano quattro e impossibili, a meno di forzature impervie, da ricondurre a uno testimonia invece con chiarezza che la verità cristiana si dà originariamente come plurale. Euaggélion, come si sa, sta a significare in primo luogo la buona novella annunciata da Gesù, il suo messaggio salvifico; soltanto dalla metà del II secolo il termine comincia a designare lo scritto che la riporta. Non è troppo preciso, dunque, riferirsi a un Vangelo dicendo che è di Matteo o di Marco ma, come la liturgia abitua a fare, bisognerebbe specificare che ogni Vangelo rappresenta la buona novella “secondo” (katá) Marco, Matteo, Luca o Giovanni, cioè l’evento salvifico – coincidente con la vita, passione, morte e resurrezione di Gesù – visto da occhi diversi e interpretato con linguaggi differenti e peculiari prospettive teologiche. Quindi si può dire che al centro della visione di Marco sta il “segreto messianico”, o che in Matteo vige la preoccupazione di legare la venuta di Gesù alla tradizione ebraica della Torah e dei profeti (qui nemmeno uno iota della Legge deve essere abolito, 5,18), in Luca è decisiva la riflessione teologica sulla storia della salvezza, in Giovanni lo sono l’incarnazione e l’identità tra il Figlio e il Padre.
Sotto il segno di una parola interpretante
La Chiesa delle origini non ha scelto una narrazione privilegiata dell’evento messianico, ma ha accettato che questo racconto potesse venire affidato a quattro versioni differenti e non pienamente coincidenti. Naturalmente i primi tre Vangeli hanno molti passi in comune, se li si “guarda insieme” risaltano delle affinità e delle intersezioni letterarie, ma altrettanto palesemente nessun testo si riduce all’altro o lo contiene, come ad esempio Agostino pensava di Marco, supponendolo una sintesi di Matteo. La religione cristiana, da questo punto di vista, può dunque ritenersi un’erede impeccabile della tradizione ebraica da cui proviene, perché come quella nasce sotto il segno di una parola interpretante: il linguaggio attraverso il quale Dio si manifesta non è univoco o assoluto, ma correlato a un commento umano, anzi solo in questo commento può trovare espressione. E questa espressione risulta inevitabilmente molteplice, poiché non si dà mai l’Uomo, ma sempre gli uomini.
L’unità della persona Gesù e il significato della sua azione passano attraverso il prisma di sguardi diversi che moltiplicano e istituiscono differenze. Differenze ma anche eventuali incongruenze. Queste incongruenze disturbano un modo di essere credenti per il quale l’esperienza di fede sembra ammissibile unicamente se retta da una rigida impalcatura, un intreccio di simmetrie nel quale ogni asserzione può ritenersi plausibile soltanto se s’incastra perfettamente nelle altre, come una vite nel proprio dado. L’incapacità di rinunciare a questo edificio sistematico sfocia sovente in tentativi maldestri e quasi risibili di sanare le incoerenze scritturali. Specularmente esiste una sorta di fondamentalismo anticristiano che esulta per ogni contraddizione che si può rinvenire nei libri biblici, come se la presenza di queste costituisse un motivo sufficiente a provare l’inattendibilità dell’insieme. Ambedue queste posizioni, opposte nelle loro conclusioni, si direbbero dominate dalla convinzione che un Dio che non abbia a che fare con una catena di deduzioni incontrovertibili non possa essere un Dio. La tradizione ebraico-cristiana invece ci insegna prevalentemente altro, e cioè che il luogo dell’eterno è il tempo, o perlomeno che il tempo è l’unico luogo in cui l’uomo può incontrare l’eterno. La dimensione temporale occupa il centro della rivelazione cristiana e dell’umano accostarsi ad essa, perché la parola che cerca di intenderla non è il riflesso solidificato e immodificabile di un principio immutabile, ma è affidata al divenire storico: si plasma dentro la sua contingenza e la sua imperfezione, vive della molteplicità degli sguardi e della loro opacità, possiede dell’umano le risorse creative quanto i limiti e le deficienze che lo segnano. Peraltro, proprio in forza di questi elementi, la religione cristiana avrebbe nelle sue corde, più di altri complessi religiosi e filosofici, le potenzialità per intendere pienamente l’intima compenetrazione fra realtà e evoluzione.
Eretico alle origini
Naturalmente all’annuncio salvifico che i Vangeli ci riportano si può credere come no, aderire o meno. Altrettanto evidente è che in esso sono presenti tratti imprescindibili, non lo si può stirare a piacimento per fargli magari dire che talvolta pure odiare il prossimo può considerarsi cristiano. Resta però che questa buona novella non è codificabile in un solo linguaggio e la convinzione che imbozzolarla in un’unica parola sia un mezzo efficace per proteggerla stride innanzitutto con la stessa pluralità evangelica, con le diverse scelte d’interpretazione teologica compiute dagli evangelisti. Se poi ci si ricorda che il termine greco per scelta è aíresis, forse non risulta troppo provocatorio sostenere che il cristianesimo è eretico nei suoi fondamenti, e che alla richiesta di indicare un luogo letterario che incoraggi la pratica dell’eresia si potrebbe agevolmente rispondere: i Vangeli.
Abbiamo quattro Vangeli non uno: questa è l’ovvietà in questione. Un’ovvietà che nel parlare comune spesso si dissimula nel riferirsi e nel pensare al Vangelo come a un blocco unico che li comprende tutti e quattro, una sorta di ipertesto costituito dalla semplice giustapposizione di tutte le parti, con l’inclinazione a credere che si tratti di quattro scritti praticamente intercambiabili, e che ogni frase presente nell’uno potrebbe tranquillamente venire aggiunta a un altro nel quale è assente, senza mutare alcunché degli equilibri e del significato di fondo.
Il fatto che i Vangeli – canonici naturalmente – siano quattro e impossibili, a meno di forzature impervie, da ricondurre a uno testimonia invece con chiarezza che la verità cristiana si dà originariamente come plurale. Euaggélion, come si sa, sta a significare in primo luogo la buona novella annunciata da Gesù, il suo messaggio salvifico; soltanto dalla metà del II secolo il termine comincia a designare lo scritto che la riporta. Non è troppo preciso, dunque, riferirsi a un Vangelo dicendo che è di Matteo o di Marco ma, come la liturgia abitua a fare, bisognerebbe specificare che ogni Vangelo rappresenta la buona novella “secondo” (katá) Marco, Matteo, Luca o Giovanni, cioè l’evento salvifico – coincidente con la vita, passione, morte e resurrezione di Gesù – visto da occhi diversi e interpretato con linguaggi differenti e peculiari prospettive teologiche. Quindi si può dire che al centro della visione di Marco sta il “segreto messianico”, o che in Matteo vige la preoccupazione di legare la venuta di Gesù alla tradizione ebraica della Torah e dei profeti (qui nemmeno uno iota della Legge deve essere abolito, 5,18), in Luca è decisiva la riflessione teologica sulla storia della salvezza, in Giovanni lo sono l’incarnazione e l’identità tra il Figlio e il Padre.
Sotto il segno di una parola interpretante
La Chiesa delle origini non ha scelto una narrazione privilegiata dell’evento messianico, ma ha accettato che questo racconto potesse venire affidato a quattro versioni differenti e non pienamente coincidenti. Naturalmente i primi tre Vangeli hanno molti passi in comune, se li si “guarda insieme” risaltano delle affinità e delle intersezioni letterarie, ma altrettanto palesemente nessun testo si riduce all’altro o lo contiene, come ad esempio Agostino pensava di Marco, supponendolo una sintesi di Matteo. La religione cristiana, da questo punto di vista, può dunque ritenersi un’erede impeccabile della tradizione ebraica da cui proviene, perché come quella nasce sotto il segno di una parola interpretante: il linguaggio attraverso il quale Dio si manifesta non è univoco o assoluto, ma correlato a un commento umano, anzi solo in questo commento può trovare espressione. E questa espressione risulta inevitabilmente molteplice, poiché non si dà mai l’Uomo, ma sempre gli uomini.
L’unità della persona Gesù e il significato della sua azione passano attraverso il prisma di sguardi diversi che moltiplicano e istituiscono differenze. Differenze ma anche eventuali incongruenze. Queste incongruenze disturbano un modo di essere credenti per il quale l’esperienza di fede sembra ammissibile unicamente se retta da una rigida impalcatura, un intreccio di simmetrie nel quale ogni asserzione può ritenersi plausibile soltanto se s’incastra perfettamente nelle altre, come una vite nel proprio dado. L’incapacità di rinunciare a questo edificio sistematico sfocia sovente in tentativi maldestri e quasi risibili di sanare le incoerenze scritturali. Specularmente esiste una sorta di fondamentalismo anticristiano che esulta per ogni contraddizione che si può rinvenire nei libri biblici, come se la presenza di queste costituisse un motivo sufficiente a provare l’inattendibilità dell’insieme. Ambedue queste posizioni, opposte nelle loro conclusioni, si direbbero dominate dalla convinzione che un Dio che non abbia a che fare con una catena di deduzioni incontrovertibili non possa essere un Dio. La tradizione ebraico-cristiana invece ci insegna prevalentemente altro, e cioè che il luogo dell’eterno è il tempo, o perlomeno che il tempo è l’unico luogo in cui l’uomo può incontrare l’eterno. La dimensione temporale occupa il centro della rivelazione cristiana e dell’umano accostarsi ad essa, perché la parola che cerca di intenderla non è il riflesso solidificato e immodificabile di un principio immutabile, ma è affidata al divenire storico: si plasma dentro la sua contingenza e la sua imperfezione, vive della molteplicità degli sguardi e della loro opacità, possiede dell’umano le risorse creative quanto i limiti e le deficienze che lo segnano. Peraltro, proprio in forza di questi elementi, la religione cristiana avrebbe nelle sue corde, più di altri complessi religiosi e filosofici, le potenzialità per intendere pienamente l’intima compenetrazione fra realtà e evoluzione.
Eretico alle origini
Naturalmente all’annuncio salvifico che i Vangeli ci riportano si può credere come no, aderire o meno. Altrettanto evidente è che in esso sono presenti tratti imprescindibili, non lo si può stirare a piacimento per fargli magari dire che talvolta pure odiare il prossimo può considerarsi cristiano. Resta però che questa buona novella non è codificabile in un solo linguaggio e la convinzione che imbozzolarla in un’unica parola sia un mezzo efficace per proteggerla stride innanzitutto con la stessa pluralità evangelica, con le diverse scelte d’interpretazione teologica compiute dagli evangelisti. Se poi ci si ricorda che il termine greco per scelta è aíresis, forse non risulta troppo provocatorio sostenere che il cristianesimo è eretico nei suoi fondamenti, e che alla richiesta di indicare un luogo letterario che incoraggi la pratica dell’eresia si potrebbe agevolmente rispondere: i Vangeli.
Massimiliano Fortuna |
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