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 462 - Con la lanterna di Diogene

 

Può la teologia allattare pedofili?

 

Nato da un dialogo autunnale tra amici, questo articolo aveva già conosciuto due riscritture con il titolo: «Anima e corpo, l’inscindibile coppia», quando, a inizio gennaio, è esploso, in tutto il suo clamore l’affaire pedofilia, che lo ha travolto e stravolto.

Ora tutti conosciamo le conseguenze della coraggiosa iniziativa del Vescovo di Roma, comprese le dispute, sempre più accese, sulla legittimità degli orientamenti pastorali e, implicitamente, dottrinali della sua Amoris laetitiae. Il che ha reso un dovere interrogarsi sul ruolo giocato dalla sessualità nella maturazione e nello sviluppo dei singoli e della comunità ecclesiale.

Provo dunque ad abbozzare un’interpretazione sulle possibili origini teologiche e morali di tanto nefasta diffusione nel clero cattolico di una prassi erotica tipicamente adolescenziale e che, trascinata fino e oltre l’età matura, si trasforma inevitabilmente in delitto. È un compito difficile, a cui forse nessuno oggi è veramente adeguato, ma che ormai va affrontato, anche solo per tener vivo un dibattito, che, dopo l’intervento a gamba tesa, dell’autodimissionato Benedetto XVI, sembra orientato a negare ogni possibile relazione tra prassi pastorale e apparato dottrinale, destinandosi di fatto a un finale predicatorio e moralistico.

 

«Da mihi animas et cetera tolle»

«Ancora cinquant’anni fa – mi ha detto un amico professore, già allievo dei Salesiani - l’educatore cattolico doveva badare innanzitutto all’edificazione dell’anima. Non a caso il motto di don Bosco, maldestramente ripreso dal versetto 21 di Genesi 14, suona: «da mihi animas, cetera tolle»; quasi il corpo fosse la parte ignobile, materiale e mortale dell’uomo-donna, a cui dare la minima attenzione possibile e l’anima la parte nobile e virtuosa, da edificare in vista della sua immortalità». «Oggi, però, – ha subito aggiunto ‒ dell’anima non parlano più neanche i preti e il corpo si è preso la rivincita. Tutto quel che era dovuto all’anima, con una sorta di rovesciamento ideologico, ora è dovuto al corpo. L’ascesi, come palestra di virtù, accomuna l’asceta all’atleta. L’uno impegnato a rafforzare l’anima a spese del corpo, l’altro a rinvigorire il corpo, dimentico dell’anima».

Non so dove l’amico volesse andare a parare. So che ho preso spunto dal suo cenno al dualismo corpo-anima, che sta alla base non solo del modello educativo salesiano e del platonismo classico, ma delle correnti maggioritarie della teologia e della morale cristiana, per fargli presente il disagio provato l’antivigilia delle vacanze di Pasqua del 1950.

Andavo per i nove anni. Da bravi e impuberi maschietti di IV e V elementare ci si preparava per il Giorno Santo e il “don” del mio nuovo paese, con le maestre delle ultime classi, ci ha riuniti per illustrarci le “virtù eroiche” di Domenico Savio; l’allievo di don Bosco beatificato da un mese, che quattordicenne aveva chiesto e ottenuto dall’Immacolata, morta vergine e nata libera «d’ogni originaria lordura», il privilegio di volare al cielo prima di poter peccare.

A nove-dieci anni potevamo capire e far nostra la libertà e l’ostinazione con cui Domenico, ancora bambino, enunciava e prometteva di mantenere una scelta tanto impegnativa. Ci sfuggiva, però, il senso e la ragione di tale decisione. Quale peccato, peggiore della morte, correva il rischio di commettere uno come noi o una delle nostre coetanee? Ce lo chiedevamo anche perché, negli stessi giorni, la loro maestra le aveva invitate a riflettere sulla vita e sulla morte esemplare di Maria Goretti (1890-1902), proclamata a giugno del 1950 «Martire della verginità». Uccisa undicenne, per aver resistito a un ragazzo di poco più anziano, “che voleva spogliarla”. Questo pochi mesi dopo che essa aveva ricevuto la prima comunione, facendo proprio, ahimé, il motto: «La morte, ma non il peccato».

 

Corpo, sesso, peccato, morte eterna; anima, verginità, santità, vita eterna

Quasi senza parlarne tra noi e con altri, maschietti e femminucce, abbiamo capito che il peccato nascondeva il suo pungiglione nel nostro corpo e sarebbe diventato mortale quando fossimo diventati adulti. Vale a dire, quando, due o tre anni dopo, mestruazioni e polluzioni, sorprendendoci impreparati, ci avrebbero costretti a prendere atto della nostra identità sessuale e iniziare a farcene carico da soli, tra sbandamenti, patemi d’animo, curiosità insoddisfatte e qualche, irrimediabile, errore.

Corpo è sesso, sesso è peccato, peccato è morte eterna, morte eterna è inferno tra le braccia di Satana. Paradiso è vita eterna tra le braccia di Dio, vita eterna è santità, santità è verginità, verginità è anima resasi libera dalla corporeità. Questa, in forma schematica la mappa del percorso educativo che la catechesi cattolica ha offerto ai giovani, insieme a un’inedita e progressiva enfatizzazione del ruolo verginale della Madonna nell’«economia della salvezza», a partire dalla fine del ’700. Vale a dire da quando l’Illuminismo aveva cominciato a proporre la secolarizzazione delle scuole e di ogni altra istituzione sociale, compresa l’abolizione dei privilegi padronali e finanziari che la Chiesa, complici gli stati confessionali, aveva cumulato nei secoli.

Ora possiamo riconoscere che, bene o male, da questa pesante eredità ci siamo in larga parte liberati. Ma non del tutto, visto che la Conferenza episcopale italiana, ancora sei mesi fa, tentava di bloccare l’introduzione dell’Educazione sessuale nella scuole e il Papa stesso doveva, allora, esortarla a riconoscerne, oltre l’utilità, la necessità e, oggi, a smettere di trattare il sesso come «un tabù», invece che come «un dono inestimabile di Dio».

 

L’ignoranza genera mostri

Non è mia intenzione entrare in gara con le più ardite costruzioni utopiche dello psicologismo spiritualista, capace di pontificare sul dover essere ideale della sessualità, senza mai prendere in considerazione la presenza concreta degli organi essenziali per la trasmissione della vita umana e animale, né la concreta situazione storica, sociale e culturale in cui gli esseri terreni vivono di fatto la dinamica relazionale della sessualità. Né mi sogno di fare mie le tesi dello scientismo ottocentesco, tuttora vivo come frutto di una divulgazione acritica, secondo cui basta dare ai giovani la corretta informazione sul funzionamento degli organi corporei per rendere facile e felice tutta la loro vita.

Seguo dunque un’altra strada e, nei limiti di una conoscenza e di un linguaggio non specialistici, propongo alcune considerazioni a partire dal dato di fatto che quasi l’80% dei nati nel secolo scorso e nei primi anni di questo, sbatte contro la comparsa dei segni dell’entrata in funzione dei propri organi sessuali, senza aver ricevuto, da chi è responsabile della loro educazione, nessun aiuto a capire cosa gli sta accadendo e quali inedite potenzialità relazionali e affettive tutto ciò gli sta mettendo a disposizione. Il che apre praterie alle scorribande predatorie di chi approfitta della debole coscienza di sé dei bambini (celebrata spesso come “innocenza”), degli adolescenti e dei minori in genere, per deviarne la sessualità a proprio uso e consumo.

Chi scrive e, con ogni probabilità, anche chi legge, verso la fine delle elementari era già in grado di controllare e sviluppare autonomamente le capacità fisiche e psichiche, connesse alla crescita del corpo, e attivate nell’infanzia sotto la guida di un adulto. Le conosceva e le usava con relativa abilità più o meno tutte. Non conosceva e non sapeva usare con altrettanta padronanza fisica e psichica quelle relative alla presenza e al funzionamento degli organi genitali, fisicamente contigui e in qualche caso connessi a quelli escretori, ma del tutto diversi per finalità fisiche e per relative implicazioni psichiche. Tanto diversi che, mentre le finalità e le implicazioni psichiche degli organi escretori, grazie alla quasi immediata evidenza fisica della loro funzione scatologica, risultano subito a tutti legate al benessere materiale del corpo, le finalità e le implicazioni psichiche degli organi genitali, vista la complessità, la gradualità e la profondità del loro sviluppo, vengono tradizionalmente ritenute appannaggio della natura escatologica dell’anima, vale a dire della sua supposta e misteriosa capacità di sussistere oltre la morte del corpo.

È cosi che il neoplatonismo cristiano, troppo spesso autoproclamatosi teologia dello Spirito, degenera in spiritualismo e, per sottrarre al corpo le sue naturali e intrinseche potenzialità relazionali, che proprio nell’esercizio della sessualità trovano la loro matrice, finisce col negare la realizzabilità di qualsivoglia autentica vita umana terrena, tanto materiale quanto spirituale, che persegue l’amore, e, con l’amore, la comunione di vita, la collaborazione, l’aiuto reciproco, la charitas nelle sue diverse forme. Fino almeno, se non oltre, la stessa morte ultima dei singoli e del cosmo.

 

Ogni tre banalità due terzi di verità

A chi mi obiettasse che non c’è nulla di nuovo in questa mia lamentazione sulla mancanza di attenzione all’educazione sessuale dei giovani, direi che ha ragione. E ribadirei che oggi l’insistenza sul fatto che è questa una delle principali concause della comune difficoltà a vivere in pienezza la ricchissima gamma di relazioni, resa possibile dalla sessualità stessa, è tanto comune da risultare banale. Ma aggiungerei anche che darebbe un giudizio affrettato se ritenesse così di poter liquidare la questione. Quasi il risaputo potesse essere dato per scontato e acquisito una volta per sempre.

Il nuovo quasi mai è frutto della scoperta di dati inattesi e inauditi. Per lo più è esito di lunghe e tortuose riflessione e confronti dialettici tra enunciati di sapere ritenuti assodati, ma non del tutto persuasivi. Sono spesso i tentativi di collegarli in modo inedito, la loro rilettura a partire da un’ottica diversa, a mettere in luce risvolti nascosti della discutibile veridicità del nostro sapere. Risvolti che ci guidano a nuovi orizzonti di conoscenza aperti a verità nuove, mai ultime, uniche e autosufficienti. Azzardo, allora, l’accostamento di questa prima “banalità” ad altre due e, se vorrete affrontare con me questa fatica, proveremo a capire qualcosa di più di quello che sta accadendo alle forme istituzionalizzate politiche e religiose del nostro mondo.

Innanzitutto si tratta di rimettere in gioco l’evidenza di un dato storico pressoché universale, di una prassi connaturata alle istituzioni gerarchiche d’ogni tipo e grado. In caso di pericolo, esse sentono il dovere di difendere se stessa e si appellano al diritto inalienabile all’autodifesa, che volentieri si traduce nella blindatura dei vertici, nell’assolutizzazione del loro ruolo di guida, anche a costo di falsificare la realtà e trasformare la ricerca del vero in puro esercizio d’autorità. Il che fa sì che non sia più il potere al servizio della verità, ma la verità al servizio del potere.

In ultimo è bene tener conto che ogni sistema concettuale e operativo, pubblicamente accettato e diventato base comune del sapere di una comunità molto estesa, nasce all’interno di un determinato contesto culturale e sociale. Qui si radica, prende forma solidamente strutturata e, di fronte a passaggi storici secolari, tende a perpetuarsi invariato nelle sue linee generali e nei suoi “luoghi” teorici essenziali. Al più accetta che alcune usanze marginali si trasformino in folklore, ma poco concede sul piano dei principi e delle relative dottrine fondamentali, destinandosi alla morte per auto-eutanasia.

Correvano gli anni ’60 del secolo scorso, quando si aprì, dopo 400 anni, un nuovo Concilio ecumenico, il Vaticano II, indetto per interpretare i «segni del tempo». Quei segni, che frutto dell’evoluzione culturale e sociale del mondo, indicavano la direzione in cui la Chiesa avrebbe dovuto muoversi per rilanciare la propria missione di «evangelizzatrice dei popoli» e vivificare, riformandosi, «il dialogo con gli uomini del proprio tempo». Dopo alcuni anni di ferventi dibattiti e poche iniziative operative, finito Concilio, tutto si è fermato, aprendo la strada a una sempre più aggressiva nostalgia del passato. A quasi sessant’anni dalla promulgazione delle sue direttive riformatrici, sarebbe il caso di cominciare davvero a riflettere sulle cause di questo ritardo, che indubbiamente non è estraneo a quanto oggi accade.

Aldo Bodrato

(continua)

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