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teologia
Grazie, Darwin! Certo Pareyson parla audacemente di «male in Dio», e sostiene che il male è contemporaneo con Dio, che Dio in un certo senso lo ha istituito e introdotto nell’universo dove prima non c’era. Pareyson tuttavia avrebbe ragione solo in una prospettiva creazionistica, in cui Dio direttamente dà origine all’uomo in quanto prodotto “finito”, senza evoluzione dai primati; compresa quindi anche la tremenda voluttà che purtroppo prova nel compiere il male e nell’esercitare violenza (o anche solo nel guardarla, e oggi pure nel metterla in rete). In questo quadro è Dio colui che, istituendo la libertà incondizionata, introduce di fatto il male nel mondo; non ne sarebbe solo responsabile, ma pure colpevole. Ma per fortuna, grazie a Darwin, il creazionismo è falso! Per questo capisco l’autentica croce dei cristiani (e più in generale dei credenti di quasi tutte le religioni) pre-darwiniani (per quasi 19 secoli!), che erano come inchiodati di fronte al problema del male: infatti o è stato dichiarato insolubile, un mistero, oppure si sono cercate disperatamente tutte le deviazioni, i dirottamenti verso il demonio in quanto angelo decaduto. Ma deviare la responsabilità dall’uomo a Satana, è solo uno spostare il problema senza risolverlo, anzi senza compiere il minimo passo in avanti nella problematica della teodicea, perché in tale quadro anche l’angelo è creato direttamente da Dio. In una prospettiva creazionista Dio non ha perciò scusanti per la creazione dell’uomo (e/o dell’angelo che poi si demonizza): è accettabile che ci sia libertà (quindi anche potenzialmente per il male), ma non il fatto che lo abbia creato/originato così prepotente e prevaricatore, con purtroppo anche una specifica voluttà nello scatenare la violenza e la guerra. Ricordando che stiamo parlando solo del male morale, la dottrina tradizionale dell’uomo creato (molto) buono, e poi voltosi al male per una libera scelta che determina una caduta, non sta in piedi, soprattutto dopo le scoperte della genetica: se c’è stato un decadimento (la classica «caduta» è ormai un fossile mitologico), esso affonda le proprie radici e i germi in una natura originariamente creata da Dio, il quale non ne esce poi in modo così innocente e pulito, oppure ci fa la magra figura di uno… un po’ sprovveduto, perché biologicamente i geni contengono predisposizioni che andavano invece evitate, o filosoficamente avrebbe calibrato male l’apriori originario: avanziamo timidamente questa specie di sovrapposizione dell’apriori filosofico-trascendentale sull’innato di tipo biologico. Jurassic Park Non stiamo sottovalutando l’ambiente e la cultura e idolatrando il genoma; tuttavia l’appreso, l’esperienza e il libero arbitrio, da soli, non sono in grado di supportare lo sconvolgimento della «caduta» per un essere creato molto buono, e la conseguente trasformazione radicale della natura umana (quella uscita dall’Eden sembra un’altra specie; ma per una nuova specie ci vogliono milioni di anni e cambiamenti genetici significativi). Il discorso vale comunque sul piano ontologico, quindi in particolare per coloro che non amano sentir parlare né di geni, né di cervello, né di fisica e biochimica, perché lo ritengono un riduzionismo fisicalista inaccettabile: dei progenitori dalla mente e dalla coscienza doppiamente buone (perché create direttamente da Dio, e per di più ad immagine di Dio) dovrebbero dare origine a un mondo dalle azioni, intenzioni, riferimenti e significati buoni; tale senso buono non può essere improvvisamente e drasticamente rovesciato, sconvolto e annullato da un paio di atti immorali o moralmente discutibili. Purtroppo è vero che nella cultura popolare, e persino nella letteratura scientifica, i geni o i genomi sono spesso trattati come se fossero ritratti ovvi del nostro futuro, dai quali potremmo leggere i nostri talenti, le nostre inclinazioni, i nostri destini. Ma ad es. la farfalla Bicyclus anyana, che cresce colorata se nasce nella stagione delle piogge ma è grigia se nasce nella stagione secca (per una miglior difesa dai predatori; si ritiene che a produrre l’uno o l’altro colore sia un gene, il quale viene espresso il più tardi possibile e sarebbe sensibile sia alla temperatura che all’umidità dell’ambiente circostante), dimostra quanto sia obsoleta una concezione rigida del genoma, e più in particolare quanto sia fuorviante vedere in modo troppo statico il contributo dell’innato alla mente (cfr. Gary Marcus, La nascita della mente, edizione speciale del 2007 per il mensile Le Scienze, in particolare pp. 4-7 e 194-97). Quindi, benché i geni e l’ambiente siano distinti, ogni tentativo di districare l’innato dall’appreso per ora è destinato a fallire, causando degli errori madornali e delle solenni confusioni. L’effettiva realizzazione di qualsiasi genoma è sempre influenzata dall’ambiente, a partire da quello embrionale. La saga di Jurassic Park (dal libro di Michael Crichton al film di Spielberg, peraltro geniali dal punto di vista letterario e cinematografico), in cui gli scienziati ridanno vita ai dinosauri grazie a un pezzettino di Dna preistorico che si è conservato, è assolutamente irrealistica perché sorvola sul fatto che anche le prime fasi dell’espressione genica dipendono dal contesto embrionale, quindi dall’uovo di dinosauro, che oggi è assolutamente impossibile reperire in natura. Il Dna di un dinosauro iniettato in un uovo di gallina (o di rana, o simili) porterebbe a qualcosa di diverso da quello che si otterrebbe iniettando lo stesso Dna in un uovo di dinosauro; ma neppure i fans dell’ambiente dovrebbero scaldarsi troppo, perché comunque impiantare il Dna di una gallina in un uovo di dinosauro porterebbe ancor meno verosimilmente a un dinosauro. La natura della natura La maggior parte della gente ha ormai accettato il fatto che la mente si situi nel cervello (tutti i fatti mentali sono anche neurali, ma non vale l’inverso, per cui la mente non coincide col cervello); detto quindi meglio il cervello è parte di ciò che ci deve essere affinché si possa avere una mente. Poche persone però si sentono a proprio agio con l’idea che l’origine del cervello risalga ai geni. Si è disposti ad accettare che i geni possano predisporre al cancro o al diabete, ma non tanto al fatto che possano modellare significativamente anche la nostra mente, e che quindi possano influenzare i nostri pensieri e il nostro comportamento. I geni certamente non controllano il nostro destino, tuttavia contribuiscono a formare la nostra personalità, il nostro temperamento e le qualità che rendono ognuno di noi unico, come pure rendono la specie umana unica; non riguarda solo gli attributi fisici, ma anche l’intelligenza, le emozioni e i sentimenti, ossia tutto ciò che chiamiamo «mentale». Comunque la tradizione del neonato come una tabula rasa, plasmato solo dall’esperienza (non soggetto all’influsso dei geni), non è più sostenibile. Sembra proprio dunque che i geni diano forma persino ai dettagli più fini del cervello. Un ulteriore problema con la nozione tradizionale di «natura» è che tendiamo a eguagliarla a «prima della nascita», come se i geni rinunciassero alla loro influenza nel momento in cui l’embrione lascia la fabbrica. Anche psicologi esperti talvolta commettono questo errore, presupponendo che se un bambino è capace di fare qualcosa molto presto, i sostrati neurali per quel qualcosa devono essere innati; qualsiasi cosa invece accada più tardi deve essere stata imparata, ignorando il fatto che quello che giunge più tardi potrebbe anche essere “automatico”, come la crescita della barba durante l’adolescenza. Ma i geni sono a bordo durante tutta la carriera di un bambino, sino all’età adulta. Non possiamo escludere l’innato (il sorgivo, il nativo) solo perché qualcosa succede più avanti durante la vita: i sintomi di parecchie malattie si manifestano solo nell’età adulta, anche se possono essere attribuiti con certezza a un gene che viene ereditato durante il concepimento. I geni non sono roba da bambini, un gene è per sempre. Allo stesso modo si riteneva che il peccato di Adamo ed Eva, perché avvenuto un po’ più avanti nella loro vita, ad eccezione del fatto nudo e crudo della libertà, non avesse alcuna relazione con le loro strutture innate (a parte il rapporto di netto contrasto e insanabile contraddizione con una natura originaria pensata come doppiamente buona). Tre errori Il primo errore consiste allora nel presupporre che il libero arbitrio basti ad avallare quel salto veramente inspiegabile da un innato, nativo, originario doppiamente buono (sia perché fatto da Dio come il resto del creato, sia perché creato espressamente ad immagine e somiglianza di Dio) a un male morale che si situa logicamente all’estremo opposto in contrapposizione radicale. La dottrina tradizionale sui progenitori e la «caduta» presuppone inoltre erroneamente (secondo errore) che quanto è successo dopo (peccato, colpa, pena) possa alterare e sconvolgere totalmente la natura originaria (creata buona a somiglianza di Dio). La dottrina tradizionale presuppone altresì (terzo errore) che lo sconvolgimento portato sulla natura dal male morale sia la causa del male naturale (malattie, disastri ambientali, fragilità, dolore fisico, morte…). Per gran parte della psicologia, filosofia e anche della teologia, è come se Crick e Watson non si fossero mai imbattuti nel Dna. In chiave creazionistica il cablaggio della mente è comunque un’opera esclusiva di Dio; se quindi l’uomo ha compiuto il male, vuol dire che ne era predisposto, in termini antichi dalla sua natura o essenza, in termini moderni dal suo genoma, in particolare da quei geni che presiedono alla costruzione, sviluppo e stadio finale adulto del cervello e relativa mente. Ciò significa che l’uomo, in una prospettiva creazionista (per fortuna falsificata), non è uscito dalla fabbrica divina poi così buono e perfetto, e di ciò Dio sarebbe responsabile (e a nostro parere pure colpevole). Sono tutte vie non più percorribili. Diversa è invece la questione del male morale in chiave evoluzionistica. molto prematura. Grazie, Darwin! Certo Pareyson parla audacemente di «male in Dio», e sostiene che il male è contemporaneo con Dio, che Dio in un certo senso lo ha istituito e introdotto nell’universo dove prima non c’era. Pareyson tuttavia avrebbe ragione solo in una prospettiva creazionistica, in cui Dio direttamente dà origine all’uomo in quanto prodotto “finito”, senza evoluzione dai primati; compresa quindi anche la tremenda voluttà che purtroppo prova nel compiere il male e nell’esercitare violenza (o anche solo nel guardarla, e oggi pure nel metterla in rete). In questo quadro è Dio colui che, istituendo la libertà incondizionata, introduce di fatto il male nel mondo; non ne sarebbe solo responsabile, ma pure colpevole. Ma per fortuna, grazie a Darwin, il creazionismo è falso! Per questo capisco l’autentica croce dei cristiani (e più in generale dei credenti di quasi tutte le religioni) pre-darwiniani (per quasi 19 secoli!), che erano come inchiodati di fronte al problema del male: infatti o è stato dichiarato insolubile, un mistero, oppure si sono cercate disperatamente tutte le deviazioni, i dirottamenti verso il demonio in quanto angelo decaduto. Ma deviare la responsabilità dall’uomo a Satana, è solo uno spostare il problema senza risolverlo, anzi senza compiere il minimo passo in avanti nella problematica della teodicea, perché in tale quadro anche l’angelo è creato direttamente da Dio. In una prospettiva creazionista Dio non ha perciò scusanti per la creazione dell’uomo (e/o dell’angelo che poi si demonizza): è accettabile che ci sia libertà (quindi anche potenzialmente per il male), ma non il fatto che lo abbia creato/originato così prepotente e prevaricatore, con purtroppo anche una specifica voluttà nello scatenare la violenza e la guerra. Ricordando che stiamo parlando solo del male morale, la dottrina tradizionale dell’uomo creato (molto) buono, e poi voltosi al male per una libera scelta che determina una caduta, non sta in piedi, soprattutto dopo le scoperte della genetica: se c’è stato un decadimento (la classica «caduta» è ormai un fossile mitologico), esso affonda le proprie radici e i germi in una natura originariamente creata da Dio, il quale non ne esce poi in modo così innocente e pulito, oppure ci fa la magra figura di uno… un po’ sprovveduto, perché biologicamente i geni contengono predisposizioni che andavano invece evitate, o filosoficamente avrebbe calibrato male l’apriori originario: avanziamo timidamente questa specie di sovrapposizione dell’apriori filosofico-trascendentale sull’innato di tipo biologico. Jurassic Park Non stiamo sottovalutando l’ambiente e la cultura e idolatrando il genoma; tuttavia l’appreso, l’esperienza e il libero arbitrio, da soli, non sono in grado di supportare lo sconvolgimento della «caduta» per un essere creato molto buono, e la conseguente trasformazione radicale della natura umana (quella uscita dall’Eden sembra un’altra specie; ma per una nuova specie ci vogliono milioni di anni e cambiamenti genetici significativi). Il discorso vale comunque sul piano ontologico, quindi in particolare per coloro che non amano sentir parlare né di geni, né di cervello, né di fisica e biochimica, perché lo ritengono un riduzionismo fisicalista inaccettabile: dei progenitori dalla mente e dalla coscienza doppiamente buone (perché create direttamente da Dio, e per di più ad immagine di Dio) dovrebbero dare origine a un mondo dalle azioni, intenzioni, riferimenti e significati buoni; tale senso buono non può essere improvvisamente e drasticamente rovesciato, sconvolto e annullato da un paio di atti immorali o moralmente discutibili. Purtroppo è vero che nella cultura popolare, e persino nella letteratura scientifica, i geni o i genomi sono spesso trattati come se fossero ritratti ovvi del nostro futuro, dai quali potremmo leggere i nostri talenti, le nostre inclinazioni, i nostri destini. Ma ad es. la farfalla Bicyclus anyana, che cresce colorata se nasce nella stagione delle piogge ma è grigia se nasce nella stagione secca (per una miglior difesa dai predatori; si ritiene che a produrre l’uno o l’altro colore sia un gene, il quale viene espresso il più tardi possibile e sarebbe sensibile sia alla temperatura che all’umidità dell’ambiente circostante), dimostra quanto sia obsoleta una concezione rigida del genoma, e più in particolare quanto sia fuorviante vedere in modo troppo statico il contributo dell’innato alla mente (cfr. Gary Marcus, La nascita della mente, edizione speciale del 2007 per il mensile Le Scienze, in particolare pp. 4-7 e 194-97). Quindi, benché i geni e l’ambiente siano distinti, ogni tentativo di districare l’innato dall’appreso per ora è destinato a fallire, causando degli errori madornali e delle solenni confusioni. L’effettiva realizzazione di qualsiasi genoma è sempre influenzata dall’ambiente, a partire da quello embrionale. La saga di Jurassic Park (dal libro di Michael Crichton al film di Spielberg, peraltro geniali dal punto di vista letterario e cinematografico), in cui gli scienziati ridanno vita ai dinosauri grazie a un pezzettino di Dna preistorico che si è conservato, è assolutamente irrealistica perché sorvola sul fatto che anche le prime fasi dell’espressione genica dipendono dal contesto embrionale, quindi dall’uovo di dinosauro, che oggi è assolutamente impossibile reperire in natura. Il Dna di un dinosauro iniettato in un uovo di gallina (o di rana, o simili) porterebbe a qualcosa di diverso da quello che si otterrebbe iniettando lo stesso Dna in un uovo di dinosauro; ma neppure i fans dell’ambiente dovrebbero scaldarsi troppo, perché comunque impiantare il Dna di una gallina in un uovo di dinosauro porterebbe ancor meno verosimilmente a un dinosauro. La natura della natura La maggior parte della gente ha ormai accettato il fatto che la mente si situi nel cervello (tutti i fatti mentali sono anche neurali, ma non vale l’inverso, per cui la mente non coincide col cervello); detto quindi meglio il cervello è parte di ciò che ci deve essere affinché si possa avere una mente. Poche persone però si sentono a proprio agio con l’idea che l’origine del cervello risalga ai geni. Si è disposti ad accettare che i geni possano predisporre al cancro o al diabete, ma non tanto al fatto che possano modellare significativamente anche la nostra mente, e che quindi possano influenzare i nostri pensieri e il nostro comportamento. I geni certamente non controllano il nostro destino, tuttavia contribuiscono a formare la nostra personalità, il nostro temperamento e le qualità che rendono ognuno di noi unico, come pure rendono la specie umana unica; non riguarda solo gli attributi fisici, ma anche l’intelligenza, le emozioni e i sentimenti, ossia tutto ciò che chiamiamo «mentale». Comunque la tradizione del neonato come una tabula rasa, plasmato solo dall’esperienza (non soggetto all’influsso dei geni), non è più sostenibile. Sembra proprio dunque che i geni diano forma persino ai dettagli più fini del cervello. Un ulteriore problema con la nozione tradizionale di «natura» è che tendiamo a eguagliarla a «prima della nascita», come se i geni rinunciassero alla loro influenza nel momento in cui l’embrione lascia la fabbrica. Anche psicologi esperti talvolta commettono questo errore, presupponendo che se un bambino è capace di fare qualcosa molto presto, i sostrati neurali per quel qualcosa devono essere innati; qualsiasi cosa invece accada più tardi deve essere stata imparata, ignorando il fatto che quello che giunge più tardi potrebbe anche essere “automatico”, come la crescita della barba durante l’adolescenza. Ma i geni sono a bordo durante tutta la carriera di un bambino, sino all’età adulta. Non possiamo escludere l’innato (il sorgivo, il nativo) solo perché qualcosa succede più avanti durante la vita: i sintomi di parecchie malattie si manifestano solo nell’età adulta, anche se possono essere attribuiti con certezza a un gene che viene ereditato durante il concepimento. I geni non sono roba da bambini, un gene è per sempre. Allo stesso modo si riteneva che il peccato di Adamo ed Eva, perché avvenuto un po’ più avanti nella loro vita, ad eccezione del fatto nudo e crudo della libertà, non avesse alcuna relazione con le loro strutture innate (a parte il rapporto di netto contrasto e insanabile contraddizione con una natura originaria pensata come doppiamente buona). Tre errori Il primo errore consiste allora nel presupporre che il libero arbitrio basti ad avallare quel salto veramente inspiegabile da un innato, nativo, originario doppiamente buono (sia perché fatto da Dio come il resto del creato, sia perché creato espressamente ad immagine e somiglianza di Dio) a un male morale che si situa logicamente all’estremo opposto in contrapposizione radicale. La dottrina tradizionale sui progenitori e la «caduta» presuppone inoltre erroneamente (secondo errore) che quanto è successo dopo (peccato, colpa, pena) possa alterare e sconvolgere totalmente la natura originaria (creata buona a somiglianza di Dio). La dottrina tradizionale presuppone altresì (terzo errore) che lo sconvolgimento portato sulla natura dal male morale sia la causa del male naturale (malattie, disastri ambientali, fragilità, dolore fisico, morte…). Per gran parte della psicologia, filosofia e anche della teologia, è come se Crick e Watson non si fossero mai imbattuti nel Dna. In chiave creazionistica il cablaggio della mente è comunque un’opera esclusiva di Dio; se quindi l’uomo ha compiuto il male, vuol dire che ne era predisposto, in termini antichi dalla sua natura o essenza, in termini moderni dal suo genoma, in particolare da quei geni che presiedono alla costruzione, sviluppo e stadio finale adulto del cervello e relativa mente. Ciò significa che l’uomo, in una prospettiva creazionista (per fortuna falsificata), non è uscito dalla fabbrica divina poi così buono e perfetto, e di ciò Dio sarebbe responsabile (e a nostro parere pure colpevole). Sono tutte vie non più percorribili. Diversa è invece la questione del male morale in chiave evoluzionistica. Mauro Pedrazzoli
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