Ancora nel maggio del 1966, a Concilio concluso, Paolo VI parlava della Chiesa come di una «città sul monte», quasi una «Gerusalemme celeste»: una società resa omogenea e autonoma da leggi e da autorità proprie. Una comunità unita e governata da un diritto sociale distinto; una nazione, uno stato sui generis, in quanto, già in terra, ordinata/o al «Regno» (Udienza generale 25/5/1966). «La Chiesa ‒ ribadiva ‒ è appunto una società giuridica, organizzata, visibile, perfetta». E, citando il Compendium juris Ecclesiae, concludeva: «Che la Chiesa abbia forma di società, è un fatto che cade sotto gli occhi di tutti; è infatti a tutti palese l’esistenza d’una moltitudine di cattolici fedeli, congregata dai quattro venti, soggetta ed obbediente alla guida d’un pastore supremo e di altri particolari rettori, munita di mezzi, sia spirituali che temporali, destinati a vantaggio della comunità, e rivolta al fine soprannaturale della visione beatifica» (Mariano Rampolla Del Tindaro, La città sul monte, Roma 1938).
Sono passati cinquant’anni e molte cose sono cambiate, ma solo il 4 dicembre scorso, dopo lunghe consultazioni e riflessioni, i vertici vaticani hanno deciso di abolire il segreto pontificio sulle denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti citati nel primo articolo del recente motu proprio Vos estis lux mundi, vale a dire nei casi di violenza e di atti sessuali compiuti sotto minaccia o abuso di autorità; di abuso sui minori e su persone vulnerabili; di pedopornografia; di mancata denuncia e copertura degli abusatori da parte dei vescovi e dei superiori generali degli istituti religiosi.
La nuova istruzione specifica anche: «Dette informazioni sono trattate in modo da garantirne la sicurezza, l’integrità e la riservatezza, stabiliti dal Codice di Diritto canonico per tutelare “la buona fama, l’immagine e la sfera privata” delle persone coinvolte. Ma questo segreto d’ufficio non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché d’esecuzione delle richieste delle autorità giudiziarie civili».
Siamo di fronte al primo, concreto, inequivocabile passo dell’ormai inevitabile rinuncia della nostra Chiesa a trattare sé stessa e il proprio assetto istituzionale come l’anticamera, se non la quintessenza, del Regno? Siamo al punto di non ritorno di quel processo di demitizzazione e desacralizzazione dell’apparato dottrinale ed ecclesiologico cattolico, premessa a ogni nuovo fecondo dialogo della Chiesa con la modernità, voluto dai promotori e temuto dagli oppositori del Vaticani II?
A giudicare dalla reazione allarmata dei settori più conservatori della Chiesa italiana, verrebbe da dire di sì, visto quanto, in proposito, scrive il nostro alter ego quotidiano e loro fan sfegatato, Giuliano Ferrara: «Il Papa ha scelto di non portare avanti un’azione di contrasto al romanzo gotico decristianizzatore del mondo contemporaneo e con la scusa della pedofilia ha reso il Vaticano ostaggio della giustizia della delazione . Ben scavato vecchia talpa» («Il Foglio» 19/12/2019).
Qui potremmo fermarci, non prima però di aver fatto presente, sia ai nostri lettori più anziani e smemorati, sia ai più giovani, ignari di antiche battaglie, che all’origine di tanto spudorata demonizzazione del pontificato di Bergoglio, non stanno solo i pettegolezzi dei troppi porporati emeriti, delusi e frustrati, alla Viganò, bensì il retaggio di quell’intransigentismo clerical-confessionale a cui, citando il cardinal Martini, papa Francesco addebita «i due secoli di ritardo storico-culturali che vanificano la missione evangelizzatrice della Chiesa oggi» (Discorso alla Curia 21/12/2019)
Quale visione del cristianesimo, infatti, intende difendere Ferrara quando scrive: «Papa Francesco, togliendo il segreto pontificio dagli atti investigativi e processuali canonici, ad ogni livello, fa un passo, più che verso la trasparenza, verso il caos e il mondo, che, come si sa, sono strettamente intrecciati»? Se non il cristianesimo sotto forma di «cristianità», o meglio di «cattolicità politicamente e religiosamente assolutista»?
Così infatti scriveva Donoso Cortes a sostegno del Sillabo di Pio IX: «Il cammino dell’umanità è un mistero profondo, che ha ricevuto due spiegazioni contrarie: quella del cattolicesimo (conoscenza per fede) e quella della filosofia (conoscenza razionale). L’insieme di ciascuna di queste spiegazioni costituisce una “civiltà completa”. Tra queste due civiltà (modelli sociali) vi è un abisso insondabile, un antagonismo assoluto … La “civiltà-società cattolica” contiene il bene senza mescolanza di male, mentre la “civiltà-società filosofica” contiene il male, senza mescolanza di bene» (G. Miccoli, Tra mito della cristianità e secolarizzazione, p. 58, Marietti 1985).
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