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 470 - Recuperare la morte alla vita / 3

 

Chi vive muore e la sua vita, con la vita di altri, si completa

Nei mesi di novembre e di dicembre ho pubblicato due articoli sulla necessità di riproporre alla comune attenzione il tema antico e intramontabile del binomio vita- morte (il foglio 466 e 467). Per ragioni diverse, in primis l’estrema delicatezza e difficoltà dell’argomento, ho tenuto in sospeso la conclusione. Mi è stato chiesto di affrettarla. Questo l’esito temporaneo e periclitante.

 

Sentenziare per non dialogare

Non è solo perché tra una decina di mesi entrerò nell’ottantesimo anno di vita, che mi è venuto il ghiribizzo di pensare alla morte come momento critico ed essenziale del nostro vivere. E, se questo ghiribizzo ha preso la forma di un radicale rifiuto della più corriva predicazione cristiana sul fine vita, non è neppure in quanto da tre lustri, a seguito di un trapianto, ogni giorno mi trovo a dover prendere atto che le caratteristiche tipiche del mio essere “persona” non dipendono dall’immortalità dell’anima spirituale, ma dalla tenacia dello spirito vitale del fegato materiale.

In realtà, non di quello fornitomi dalla natura o dalla divina provvidenza all’atto della nascita, ma di quello donatomi, al culmine di una malattia infausta, da un uomo morto prima di me e da me altro in tutto, eccetto che «nell’umana fisica mortalità». O, per meglio dire, “eguale” solo nel comune amore alla vita dei nostri corpi che, in quanto particolari grumi di materia, cresciuti in relazione dinamica e unitaria, si orientano a diventare parti indivise di una comunità di diversi, rivelandosi di per sé aperti a inattese forme di trascendenza, materiale e spirituale insieme.

Tutto ciò ha certo contribuito a farmi sentire coinvolto in questo tipo di tema. Ma di fatto a motivare il mio intervento è stato il modo duro e sbrigativo (più un diktat che il tentativo di aprire un confronto) con cui la Cei, nella Nota del 25 settembre scorso ha preso le distanze dalla prudente e misurata sentenza della Consulta sul caso Fabo-Cappato. Un testo la cui superficialità, non solo denuncia «i secoli di ritardo culturale con cui la Chiesa si muove nei tentativi di incontro con la modernità», ma che evidenzia la difficoltà dei vescovi italiani a liberarsi dell’ipse dixit romano per far fronte al compito, loro assegnato dalla Lumen Gentium, di farsi guida del “popolo di Dio che è in Italia” al confronto storico, etico e culturale con la società civile del proprio tempo.

 

Dal seno di Abramo a quello di Maria janua coeli

In attesa dunque che i vescovi si sveglino, riprendiamo da capo la nostra riflessione.

Uomini e donne, laici e preti, vescovi e papi, credenti e non credenti di qualsivoglia fede e religione, corrente di pensiero ateo o agnostico: tutti sappiamo che vita immortale non si dà nell’universo da noi abitato e che ogni vita (vegetale, animale e umana) in sé include la morte. Tutti lo sappiamo eppure tutti fatichiamo ad accettare che il dato di fatto possa dar luogo a un giudizio di diritto. Respingiamo l’idea che la stessa morte naturale di un vivente possa essere considerata rispondente a una norma in sé rispettosa del valore della vita, visto che la morte, troppo spesso, se non “quasi sempre”, rischia di sottrarre senso alla vita, privandola della possibilità di realizzare gli eventuali fini che essa si è data. Questo a meno che, per una rara evenienza, ancor sempre affidata all’imperscrutabilità del caso o del divino volere, una vita non incontri quella che potremmo definire «la sua propria morte»: quella che a lei puntualmente si attaglia.

È il caso esemplare del mitico Abramo, «padre di molti popoli», modello ideale (con Isacco e Giacobbe) dell’uomo biblico veterotestamentario, quasi buono (non buonista) e più o meno giusto (non giustizialista). Un uomo che vive una lunga vita, ricca di alti e di bassi; che si barcamena come sa e può per campare a lungo, evitare eccessi non solo di violenza, dare adeguata attenzione ai bisogni di coloro che nel corso di tale vita incontra, e garantire a sé e ai familiari una discendenza numerosa e una conforme ragguardevole proprietà. Un uomo, infine, che tale vita completa con una morte del tutto pacificata e, spirando in felice canizie, si unisce agli antenati sazio di giorni…, sepolto ad opera dei suoi figli (Gen 25,7-9; 35, 27-29; 50, 33). Possiamo, noi esseri mortali desiderare qualcosa di diverso e di più ragionevolmente appagante?

So bene che molti tra noi, forse i migliori, rifiuteranno di prendere in considerazione la domanda stessa, denunciandone l’appiattimento su un realismo privo di idealità, frutto di un umanesimo davvero troppo umano. Da parte mia confesso di non avere strumenti concettuali e culturali tali da consentirmi di suggerire una risposta univocamente positiva o negativa. Mi limito, dunque, a segnalare che proprio la conciliabilità tra vita e morte, messa in scena dalla narrazione genesiaca dell’avventura patriarcale, produce la proto-figura escatologica del «seno di Abramo». E la produce negli anni della gestazione, ancora interna all’ebraismo, del cristianesimo stesso, come una sorta di mite e quasi ragionevole preambolo al ben più dirompente e provocatorio annuncio del radicale potere liberatore dalla morte della croce e della resurrezione dai morti del Nazareno.

Il che non ci consente di considerare la vita-morte di Abramo come l’archetipo anticotestamentario della vita-morte di Gesù, visto che, in termini di coerenza, limpidezza e drammaticità narrativa, la vita-morte del secondo sembra quasi volersi contrapporre frontalmente a quella del primo, ma ci obbliga a porle simbolicamente in relazione e a confrontarci esistenzialmente con entrambe.

Davvero esemplare è, d’altronde, la fortuna del tema teologico ed artistico del «seno di Abramo». Nell’intero arco degli scritti del Canone biblico, infatti, esso compare una sola volta (hápax legómenon) a indicare il luogo dove, dopo la morte, trovano rifugio i salvati in contrapposizione all’Ade, in cui i dannati soffrono le pene dell’inferno (Luca 16,19-31: la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro). Ma già a partire dagli scritti dei Padri della Chiesa, per continuare nei cicli rappresentativi della storia della salvezza dell’alto e basso medioevo, fino almeno agli inizi del rinascimento, questo «seno» diventa oggetto di insistita attenzione, grazie al moltiplicarsi di rappresentazioni artistiche, in cui compare, prima come il “luogo-tempo” d’attesa dell’ultimo Giudizio, poi come la stessa paradisiaca dimora, nei giorni post-giudiziali, riservata ai Beati.

Tutto ciò fino almeno alla seconda metà del XVI secolo, allorché, consumato appena il trauma della Riforma, anche a seguito della scoperta delle Americhe e delle nuove rotte aperte ai commerci da Vasco de Gama e da Magellano, il Medio-Oriente mediterraneo perde la sua tradizionale centralità nella storia occidentale del mondo e il semitico «seno di Abramo» (generatore di ebrei e cristiani, ma anche di islamici), passa la mano al ben più universale «grembo immacolato di Maria». Una Maria che, grazie a un lento, ma spietato, processo di disincarnazione, passa dalla condizione storica di giovane sposa di carpentiere al para-divino e iper-mitico ruolo di «sposa-madre di Dio», «corredentrice», «porta e regina dei cieli».

 

Punti fermi eraclitei

Chi ci ha seguiti, in questo avventuroso tentativo di «recuperare la morte alla vita», è probabilmente già in grado di individuare almeno i più evidenti spunti di riflessione spirituale e religiosa, connessi alla dimensione fisico-corporale, storico-culturale ed etico-politica, che stanno alla base d’ogni vita-mortale. Si tratta, come è facile osservare, di “punti fermi” (tre per comodità di sistemazione), che in quanto frutto di esperienza esistenziale e culturale, non ambiscono al titolo di enunciati di verità, ma di argomentati indirizzi di ricerca, tanto più solidi, fermi e attendibili, quanto più aperti a sempre nuove verifiche, nuovi processi di falsificazione e sempre nuove riformulazioni. Ripercorrendo, a volo d’uccello, quanto osservato negli articoli già pubblicati e nella prima parte di questo, così li sintetizzerei anche per trarne una temporanea conclusione.

 

Uno

La morte non è la negazione della vita, ma il sigillo che nel bene e nel male la consegna al cammino della storia, letta come historia salutis.

 

Il primo passo che abbiamo dovuto fare in questa cammino è stato quello di liberarci, anche con l’aiuto di K. Rahner, dall’ipotesi, dominante nel pensiero cristiano, che essa sia la pena sacrificale imposta da Dio all’uomo a sconto del cosiddetto «peccato originale». Era questa un’ipotesi teologica che ha goduto di grande prestigio e fortuna nel millennio in cui il cristianesimo ha dovuto fare i conti col passaggio dal mondo culturale ebraico a quello greco-latino, prima, barbarico poi e medioevale. Ma che da almeno quattro secoli, grazie ai nuovi e più attendibili criteri di lettura e interpretazione degli scritti antichi (esegesi e critica letteraria) e agli ancor più rivoluzionari progressi della cosmologia e delle scienze naturali, ha perso ogni credibilità.

Altro ci inducono ormai a pensare gli studi sui milioni di secoli di formazione e trasformazione del sistema solare e sui milioni di anni trascorsi dalla comparsa dell’uomo su questa minuscola porzione dell’universo che è la terra. E, tra questo “altro” sta anche la piena presa di coscienza che la vita non ha la prerogativa dell’essere immutabile ed eterno e la morte non ha quelle del nulla, suo eventuale contrario; ma che vita e morte stanno tra loro come i poli dialettici entro cui si articola e prende forma ogni terrena esistenza. Sta la consapevolezza che ogni singola vita, unita alla sua singola morte, è parte dinamicamente costitutiva di un insieme assai complesso di esseri dallo statuto ontologico diverso, vale a dire di una realtà di vita che a noi si manifesta articolandosi nello spazio a mo’ di “cosmo” e nel tempo in guisa di storia: storia dell’uomo-donna, del mondo e, volendo, di Dio. E ciò in modo che ad ogni vivente che muore sia data la possibilità di essere presente e operativo, nel bene e nel male, nella vita dell’universale comunità degli esistenti.

 

Due

Poli della vita sono la nascita e la morte; simbolo della sua potenziale permanenza è l'ombelico: la ferita, più o meno artisticamente cicatrizzata, che al centro d'ogni corpo umano, comunque sessualmente caratterizzato, è sigillo dell'intrinseca relazionalità dell'essere di ogni singolo con ogni altro singolo e col tutto. Un tutt'uno, che, sulla libera relazione tra le sue componenti, fonda la sua potenziale e mai scontata unità. Un'unità che, a sua volta, in storicamente acquisibile, si mantiene almeno come meta profetica in vista della mitica venuta del "Regno di Dio" o si perde, del tutto annullandosi, nel discorde caos degli "Inferi" - la "morte seconda" del libro della Sapienza e dell'Apocalisse.

 

Ci muoviamo qui chiaramente all'interno degli orizzonti culturali di quell'Occidente cristiano che ritiene quasi impossibile riflettere seriamente sul nodo "vita-morte", costitutivo dell'umana esistenza, a prescindere dalla contemplazione del corpo nudo e tumefatto del Crocifisso, prototipo della creatura abbandonata dal suo Creatore al proprio destino di morte (Marco 15-34). Non esseri divini, per loro natura immortali, né uomini o donne dalla morte esentati per volere celeste, possono, risorgendo dare ali alla speranza che la vita d'ogni vivente con la morte non perda il suo più intimo senso. Sono uomini che, conosciuta la morte, "risorgono" nell'uomo dei dolori" (Isaia 53,1-12).

Il vero protagonista, infatti, dell'esserci e del non esserci più di ognuno di noi, a consentire a ogni persona di mettere in opera la propria identità storica di vivente, e, in una certa misura di morente e di defunto, è il corpo con lo sviluppo e la decadenza delle sue capacità fisiche, mentali e morali. Ed è ancora il corpo del Crocifisso, vissuto e morto per insegnarci a riconoscere e servire la presenza di Dio nel volto degli ultimi, a proporsi come sublime icona della speranza che, nonostante la sua intrinseca mortalità, la vita possa aprirsi a una qualche forma di ulteriorità, alla possibilità che esistono uomini la cui vita esemplare non finisce con la morte.

Ecco perché mi sono permesso di affermare che «al centro della Croce sta l’ombelico di Dio» (il foglio 267). Un ombelico che è insieme sigillo di mortalità e di continuità del vivere, che ci accompagna dalla nascita alla morte; che come singoli ci qualifica e, al tempo stesso, all’intera comunità umana socialmente ci lega e culturalmente alle tradizioni religiose dell’Occidente e dell’Oriente, non solo cristiano. Un ombelico di vera, fragilissima carne che, per un alcunché di più che metaforica analogia, è fulcro d’ogni ferita del Crocefisso e lì, innocente e disarmato, campeggia come prezioso simbolo della natura creatrice e redentrice di Dio e della Sua rinuncia, in nome della reciprocità dell’amore, a ogni assolutezza.

 

Tre

Oserei dire che questa volta non ci ritroviamo a dover ricominciare da capo, ma a riconoscere che, quasi senza rendercene conto siamo andati oltre le tanto agognate conclusioni, sia nel senso che le abbiamo già implicitamente enunciate, sia in quello che, esplicitandole, le dobbiamo ridimensionate a puro gioco, se non retorico, per lo meno metaforico o, se volete, teologico.

 

In fondo è a questo che un articolo, così faticoso da scrivere e, presumo, da leggere, doveva condurre, se voleva almeno avere il vago sentore di qualche filosofica e teologica autorevolezza. Doveva aiutare a capire che, se c’è un segno tangibile e un agire condivisibile, che nella nostra esperienza terrena di vita aprono la strada all’annuncio che tale vita può aspirare a un oltre-morte, questo segno tangibile è il punto più fragile e indifeso del nostro corpo stesso, quello che più di ogni altro ci indirizza a scoprire che l’incontro d’amore è tanto principio, quanto vero e fondamentale esercizio di vita. Da cui l’eterna, spesso contrapposta, ma mai veramente contrapponibile, evocazione biblica, letteraria, sentimentale e spirituale del «seno patriarcale di Abramo» e del «grembo materno di Maria», poeticamente proposti come spazi-tempi fisico-simbolici di raccolta, tutela e sviluppo della vita dei risorti in e col Cristo.

Aldo Bodrato

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