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chiesa
Una scelta innovativa nella tradizione Quando il Vescovo di Roma parla come Papa, oggi come oggi, non può parlare che da casa sua, cioè dal Vaticano. E deve parlare in modo che tutti, soprattutto la gente comune, credente o non credente che sia, possa capirlo e capirlo come portavoce, legittimamente riconosciuto nella sua comunità, del Dio di Gesù Cristo. Come Vescovo di Roma e Papa, qualsiasi innovazione voglia introdurre un papa conciliare non ha il diritto di imporla di testa sua, deve suggerirla, metterla al vaglio di un sinodo locale o universale, e quindi introdurla con una gradualità che a tutti consenta di capire, maturare e condividere, farsene partecipe. Dovendo abitare nei palazzi vaticani Jorge Bergoglio ha scelto di abitare in un alloggio più modesto di quello dei predecessori, anche per evidenziare simbolicamente la presa di distanza dalla passata gestione del suo ruolo d’autorità. Chiunque segua oggi le sue messe da Santa Marta (la sorella attiva di Maria), ha l’impressione di trovarsi di fronte un buon prete anziano, al più un vescovo che ama vivere modestamente, cura la profondità e la semplicità del suo dire e accetta di collocare il suo insegnamento all’interno della prassi gestionale, anche liturgica, dei suoi collaboratori istituzionali. Così, a mio parere, ha affrontato la benedizione Urbi et Orbi di venerdì sera 27 marzo, operando però più di una scelta innovativa nell’occupazione degli spazi e nel movimento al loro interno. Si è recato nel luogo deputato in Vaticano all’incontro del Papa col popolo, normalmente composto da credenti o non credenti, curiosi o sfaccendati, venuto ad ascoltarlo o ad assistere alla cerimonia. Questo luogo è costituito, nella parte più alta della spianata ai piedi del colle Vaticano, dalla Basilica di San Pietro, dall’ampio spiazzo del sagrato antistante le porte d’ingresso della chiesa e, più in basso di una dozzina di gradini, dalla grande piazza, chiusa su due lati dai portici e aperta sul quarto verso la città. Nello spazio del popolo Visti gli spazi col loro valore simbolico, nell’assenza fisica del popolo della sua e di ogni altra città del mondo, e in assenza, diciamo simbolica, di Dio, il Pontefice, che, nel linguaggio tradizionale della teologia dovrebbe fare da ponte tra Dio e uomo, ha scelto di tentare di colmare queste, più che metaforiche, assenze, facendosene faticosamente carico. Ha evitato di celebrare in San Pietro, «casa di Dio», dove il popolo è ospite, previa genuflessione e segno della croce, e ha scelto, come luogo di annuncio, preghiera e parola, il pezzo di piazza più vicino alla scala che sale al sagrato, e come luogo della benedizione il sagrato stesso, corredato da altare mobile con ostensorio e ostia consacrata, crocefisso ligneo e icona mariana, particolarmente venerati dal popolo romano. In sostanza, ha dato forma visibile e sonora a tre quarti di questa celebrazione collocato nello spazio deputato al popolo, quindi come portavoce del popolo e suo rappresentante presso Dio ha parlato e pregato rivolto verso il sagrato, con la porta spalancata verso l’interno della basilica. Terminate la predicazione e la preghiera, è salito faticosamente fino all’altare del sagrato, dove ha reso omaggio al crocefisso e all’icona mariana, rappresentanti terreni e storici del Dio incarnato e rivelatosi in terra come Dio di ogni essere terreno, e, di qui, senza più pronunciare neanche una parola, ha rivolto l’ostensorio col simbolo della presenza del corpo di Gesù morto di croce e risorto verso tutti i confini dell’orbe terraqueo. Strutture svuotate del loro significato Mai durante tutta la cerimonia il papa ha detto alcunché che potesse indurre a qualificarla come una classica benedizione Urbi et Orbi, con annessa possibilità di lucrare indulgenze plenarie o remissione dai peccati. Ha lasciato che questa lettura tradizionale fosse enunciata dai prelati incaricati di scandirne e commentarne la trasmissione radiofonica e televisiva. Sulla base di questa lettura della liturgia messa in scena dal papa venerdì 27, mi pare di poter ipotizzare che il già Primate argentino, giovane prete al tempo del Vaticano II, pur convinto che la nuova visione teologica del cristianesimo, ivi maturata, comporta profonde trasformazioni nell’elaborazione dottrinale e nell’organizzazione gerarchica e pastorale della Chiesa, giunto al papato alle soglie degli ottant’anni, abbia deciso di accettare il ruolo di «papa di transizione» affidatogli dal conclave. Si sia di conseguenza orientato a ripercorrere il cammino di Giovanni XXIII: quello di una riforma della Chiesa che non passa attraverso i diktat papali, ma alla promozione di assemblee ecclesiali aperte, oltre che ai vescovi e ai rappresentanti del clero, anche a quelli dei laici. Da parte sua si limita, nel frattempo, a usare le strutture tradizionali del papato vaticanocentrico per lanciare il suo messaggio che sostanzialmente le svuota del loro vecchio significato. Fa loro cantare quel canto del cigno che ne renderà meno traumatico l’abbandono da parte dei suoi successori. Aldo Bodrato
Via Crucis dei carcerati e messe televisive sine populo Ho visto in televisione alcuni momenti dei riti cattolici in questa quaresima-quarantena. Grande evidenza del papa: per confortante che sia vedere e ascoltare papa Francesco, egli, come qualunque altro papa, non è la chiesa, non è il vangelo. Ha un servizio importante di unità, è una voce evangelica importante, che rianima, unisce, sprona, evangelizza. Un po' per esigenza comprensibile in questa situazione di epidemia, un po' per quella balorda convenzione (sia nell'immagine pubblica, sia nella chiesa stessa) che riduce la chiesa al papa, egli ha avuto molto spazio: troppo? Ma, proprio per questo, la "via crucis" del Venerdì santo è stata un momento importante e rappresentativo, più delle messe televisive. Non si discute la centralità dell'eucarestia, fonte e culmine della vita cristiana. Si discute la riduzione clericale dell'eucarestia. Celebrata dal papa a santa Marta, o da un prete in video su facebook. l'eucarestia sine populo, senza popolo, è monca, se non impropria, se non addirittura, per alcuni, illegittima. Non è assolutamente più possibile, dopo il risveglio conciliare, quella messa privata che ogni prete usava celebrare negli altarini laterali, ancora visibili nelle vecchie chiese, anche due o tre messe solitarie, una qua una là. Come se un presbitero avesse senso fuori dal popolo. Se non c'è una ek-klesia, una ri-unione, una con-vocazione, pur piccola, di fedeli, non c'è assemblea eucaristica. Altro è quell'evento spirituale, anche invisibile, sempre possibile e necessario, di Matteo 6,5 ss: «Quando vuoi pregare entra nella tua stanza e chiudi la porta». Ma l'eucarestia non è un atto che il prete compie da solo o quasi, senza partecipazione alla mensa comune (mensa e non altare). Nelle messe televisive di questi giorni si vede solo il celebrante mangiare il pane e bere il vino: è assurdo che non si vedano comunicarsi i pochi altri presenti (a Santa Marta alcuni preti spettatori e niente laici partecipanti). Non basta la regola del necessario distanziamento per non fare (o non far vedere) l'essenziale all'eucarestia: la partecipazione alla stessa mensa. Non si può passare sotto silenzio questa deformazione. Se non è possibile radunarsi non c'è eucarestia. Si può pregare nelle case, o personalmente, magari in contemporanea, in unità spirituale a distanza, come sta avvenendo in varie comunità: ma se non avviene l'assemblea eucaristica, che è riunione a tavola, l'eucarestia non c'è. Perciò il rito dalla "via crucis" è stato un atto spirituale ed ecclesiale più significativo delle messe televisive. Il papa non ha quasi parlato: ha detto brevi preghiere conclusive di ogni "stazione". Hanno parlato i carcerati, alcuni condannati colpevoli, alcuni familiari di vittime, alcuni agenti di sorveglianza, alcuni che aiutano i carcerati... È stato un rito veramente ecclesiale, perché compiuto, in rappresentanza del "popolo di Dio", da persone in condizioni di sofferenza, di colpa, di bisogno di avere e dare il perdono, di assistenza a chi soffre. È stato l'atto di portare la croce insieme a Gesù, atto di tutti i giorni, espresso nella rappresentazione liturgica del cammino al Calvario. La chiesa è laica, è laòs-popolo, in cui alcuni sono ministri di tutti, non più santi, non più sacri, non più vicini a Dio di tutti gli altri. Quando, anche un piccolo numero di fedeli laici, si raduna in preghiera, lì è l'evento della presenza di Cristo, che ha assicurato di essere presente dove due o tre si riuniscono nel suo nome (Matteo 18,20). E se, in condizioni difficili come quelle della pandemia, non è possibile l'assemblea, si fa digiuno eucaristico, e si attende, col desiderio. La preghiera, l'esperienza spirituale nelle circostanze date e possibili, è, nella fede, vera partecipazione a Gesù Cristo, come è partecipazione tipica e comunitaria, l'eucarestia. Enrico Peyretti
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