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 471 - RAZZISMO, MIGRAZIONI E CATTOLICESIMO ITALIANO / 2

 

La strada spianata verso il razzismo

Il regime fascista aveva cercato di mettere un freno all’emigrazione oltreoceano, cercando al contrario di richiamare in patria o nelle colonie gli italiani emigrati nelle Americhe. In quest’ottica venne avviata una politica agraria volta a ridurre la dipendenza dall’estero per i prodotti agricoli recuperando terre agricole incolte e riducendo i grandi latifondi.

 

Le migrazioni interne e il razzismo di casa nostra

Un ruolo particolare lo assunse la bonifica dell’Agro Pontino in Lazio, avviata nel 1928 e potenziata nel 1931, reclutando manodopera tra le popolazioni più povere del Nord Italia – segnatamente dal Veneto – che si trovava a lavorare in condizioni di estrema insalubrità: così la possibilità di poter vivere della coltivazione di appezzamento di terra si accompagnò a un radicale spaesamento e a un tasso di mortalità assai elevato. Fu la prima grande migrazione interna al paese e riguardò essenzialmente il mondo rurale.

Un simile accostamento tra disponibilità di terra coltivabile e allontanamento dal paese di origine avverrà per tutt’altri motivi nel 1953: l’alluvione del Polesine obbligherà masse di contadini di quella zona a spostarsi in altre regioni del Nord a spiccata vocazione agricola.

Ma nel frattempo la tragedia della Seconda guerra mondiale, la caduta del regime fascista, il referendum popolare che portò alla fine della monarchia e alla nascita della Repubblica italiana segnarono anche una svolta decisiva nell’atteggiamento verso il razzismo esplicito. La Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, così afferma nei suoi “principi fondamentali” non emendabili: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3), anticipando quanto verrà sancito anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del dicembre dello stesso anno.

La rinascita post-bellica e la ricostruzione di un paese stremato vedrà anche il progressivo e rapido passaggio da un’economia prevalentemente agricola a una sempre più industrializzata. Questo comporterà una nuova massiccia ondata migratoria sia all’estero sia interna, dal sud al nord del paese. Così i lavoratori italiani emigrati oltre confine – principalmente in Europa: Belgio, Germania, Francia, Svizzera… – e impiegati soprattutto nei settori minerari, delle costruzioni, della ristorazione, ma anche nell’agricoltura stagionale, conosceranno pregiudizi xenofobi e razziali da parte delle popolazioni locali e anche discriminazioni di tipo legale e amministrativo. Pregiudizi e ostilità che affliggeranno anche gli emigrati interni, specie quelli provenienti da sud, chiamati a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord Italia: difficoltà a trovare alloggi in affitto, stereotipi e generalizzazioni circa abitudini malavitose, intolleranza verso usi e costumi tradizionali…

 

Xenofobia e razzismo

Ci vorranno decenni di difficile integrazione, ma – grazie sopratutto alla solidarietà operaia nelle fabbriche, alla liberalizzazione dell’accesso a tutte le facoltà universitarie anche per gli studenti provenienti dalle scuole tecniche, il progressivo intrecciarsi delle “seconde generazioni” di immigrati dal Sud Italia anche attraverso matrimoni e nuove famiglie “miste” – gli aspetti più macroscopici della “xenofobia”, cioè la paura del diverso, si attenueranno sempre più.

In questo percorso virtuoso anche il già ricordato affermarsi dell’italiano come lingua conosciuta e usata da tutti contribuirà a una maggiore coesione sociale. Né va dimenticato il ruolo della chiesa cattolica in pieno fervore di aggiornamento post-conciliare e il suo prodigarsi a livello parrocchiale locale per realizzare nella quotidianità una piena fraternità tra tutti i suoi membri.

Da almeno due decenni, tuttavia, questo arretramento dei pregiudizi e delle ostilità xenofobe e razziste si è arenato e la società italiana ha conosciuto e conosce ogni giorno di più una recrudescenza dei peggiori sentimenti di paura e di odio verso chi può essere considerato “altro”. La scomparsa della “cortina di ferro”, simboleggiata dal crollo del muro di Berlino e il conseguente affluire anche in Italia di un considerevole numero di nuovi immigrati dai paesi dell’Est – in particolare dall’Albania e dalla Romania – hanno ben presto riprodotto i peggiori stereotipi cripto-razzisti: i media e l’opinione pubblica si influenzano a vicenda nell’additare (a torto o a ragione) gli stranieri come protagonisti sia della micro-criminalità che dei più efferati delitti. Le accuse, sovente infondate e comunque esagerate, che negli anni Cinquanta e Sessanta venivano attribuite ai “meridionali”, ora vengono imputate genericamente agli stranieri provenienti dall’est Europa.

Eppure, ci ricorda l’ex-senatore Luigi Manconi, «i dati che ci consegnano le scienze sociali ed economiche sono inequivocabili: le fasi iniziali dei flussi migratori, in assenza di adeguate politiche di regolarizzazione e inclusione, producono ovunque un incremento dei crimini: ed è altrettanto vero che l'immigrazione albanese e quella romena in Italia, dopo i primi anni di assestamento, ha visto ridursi i relativi tassi di criminalità» (Contro il luogo comune dell’uomo nero” in «La Repubblica», 28 luglio 2019).

Ma prima ancora che questa xenofobia diffusa potesse essere ricondotta a dati più oggettivi di malessere sociale, l’arrivo di profughi, richiedenti asilo e migranti economici partiti dalle sponde meridionali del Mediterraneo – ma provenienti in realtà dal Medio Oriente devastato dalle guerre o dall’Africa sub-sahariana vittima di carestie o di spogliazione delle sue risorse naturali ad opera delle multinazionali occidentali – provoca uno spostamento massiccio dei sentimenti xenofobi e razzisti verso i nord-africani e i ‘neri’. A nulla valgono i richiami ai numeri oggettivi e alla possibilità e necessità di regolare i flussi migratori: la crisi finanziaria mondiale offre il pretesto ideale per dirottare la paura e l’ansia della popolazione autoctona in maggiore difficoltà economica contro i più poveri, come se l’aver identificato degli “ultimi” cui addossare ogni colpa rendesse meno precaria e più sopportabile la condizione dei “penultimi”.

Con ragione Luigi Manconi osserva che «la xenofobia – che è cosa assai diversa dal razzismo e che significa ciò che dice alla lettera, ovvero paura del diverso e dello sconosciuto – si diffonde e riguarda tutti noi. Anche coloro che si dichiarano fieramente anti-razzisti. Ed è proprio la xenofobia, che non è destinata necessariamente a tradursi in aggressività razzista, a dettare o comunque condizionare i nostri comportamenti e, ancor prima, i nostri pensieri in presenza di un evento traumatico». Ma senza una vigilanza sull’insorgere della xenofobia, senza una gestione del fenomeno migratorio, la strada verso il razzismo è spianata.

 

Terra, spaesamento e migrazioni: lo ius soli

Caso emblematico del rapporto tra legame con la terra, spaesamento dovuto all’emigrazione e razzismo è l’acceso dibattito sullo ius soli che ha attraversato l’opinione pubblica e le forze politiche italiane nella passata legislatura.

Come in altri paesi storicamente segnati dall’emigrazione, ancora oggi si diventa cittadini italiani in virtù dello ius sanguinis: un bambino è italiano fin dalla nascita se uno dei due genitori è italiano, in qualunque paese venga al mondo. Strumento un tempo necessario per garantire cittadinanza certa ai nostri emigrati indipendentemente dal paese di approdo e per mantenerli legati alla patria nell’eventualità di un ritorno in Italia. Così ancora oggi ci sono nel mondo milioni di italiani (molti dei quali con doppia cittadinanza) che non hanno mai vissuto in Italia, che non ne conoscono né la lingua, né la storia, né le leggi.

Ben diversa normalmente la legislazione di stati nati e cresciuti grazie all’immigrazione – come gli Usa ‒ che, per motivi speculari a quelli ricordati prima, accordano la cittadinanza in base allo ius soli: chiunque nasca in quella nazione ne è automaticamente cittadino.

Ora, come già accaduto in altri paesi che hanno conosciuto importanti flussi di immigrazione nella seconda metà del XX secolo, anche in Italia si è prospettata la possibilità di concedere la cittadinanza in base a uno ius soli temperato: i figli di immigrati stabilmente in Italia da almeno cinque anni – nati in Italia o arrivati in tenera età – avrebbero acquisito la cittadinanza italiana al termine del ciclo scolastico elementare (verso gli 11 anni), anziché attendere la maggiore età (18 anni) per avviare un lungo e complicato iter burocratico. Lo ius soli avrebbe consentito non solo simbolicamente all’immigrato di avere una nuova “terra” dopo lo spaesamento dalla propria.

Il progetto di legge fu approvato dalla Camera dei Deputati, ma in occasione della votazione finale in Senato (2017) il dibattito si infiammò a tal punto – dentro e soprattutto fuori dal Parlamento – che la legge non venne più messa ai voti e quindi non fu approvata prima della fine della legislatura. Così circa 800.000 bambini, ragazzi e adolescenti perfettamente integrati, che parlano solo italiano, che vivono, giocano, studiano con i loro coetanei italiani continuano a non essere cittadini del loro paese e a non godere degli stessi diritti dei loro compagni di tutti i giorni.

I toni della discussione si rivelarono ben presto accesissimi e sovente marcatamente razzisti, così che lo strumento giuridico dello ius sanguinis si è rapidamente trasformato da salvaguardia per un popolo di migranti a incentivo per un imbarbarimento razziale se non addirittura tribale.

Guido Dotti

(continua)

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