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 475 - Appunti di viaggio in Egitto / 2

 

La lunga notte delle doglie

Nel nostro viaggio di studio sul dialogo cristiano-islamico quello con i domenicani dell’Ideo de Il Cairo è stato contemporaneamente il più intenso scambio intellettuale e il più forte grido di dolore.

Dal 1953 l’Istituto Domenicano di Studi Orientali si consacra alla ricerca fondamentale sulle fonti della civiltà arabo-musulmana, per far conoscere e apprezzare l'islam nella dimensione spirituale e religiosa. Ogni anno – ci dice il suo direttore e priore del monastero dominicano ‒ migliaia di volumi, in arabo per lo più, arricchiscono la biblioteca dell’Ideo, probabilmente la più completa al mondo per i testi classici della cultura araba e del pensiero religioso nei primi sei/otto secoli dell’islam. Un patrimonio eccezionale, messo a disposizione degli studiosi del mondo intero, prioritariamente orientato al dialogo accademico interreligioso con studenti e ricercatori della vicina Università al-Azhar. Dialogo il cui terreno di intesa sono gli strumenti scientifici di analisi testuale, d’archeologia e di contestualizzazione storica. Strumenti che mettono in luce, nei primi secoli dall’Egira, una straordinaria vivacità teologica, della quale il più brillante ricercatore dell’Istituto ci traccia un panorama affascinante, aprendo squarci nel sipario monolitico della nostra conoscenza dell’islam. Lo spavento per il baratro di ignoranza a cui mi vedo affacciato, si tempera nell’apprendere che è ancora viva una teologia della via di mezzo, conosciuta come Asharita, e insegnata proprio all'Università Al-Azhar. Teologia sottile e complessa, riferimento forse inconsapevole per il popolo sunnita, ma minacciata dal diffondersi del salafismo. Sviluppatosi nel corso del secolo XIX, il salafismo vuole riformare l'islam tornando alle origini (salaf, appunto). Il conferenziere domenicano riassume così il suo messaggio semplificatore: «“Crediamo che Allah è il solo Dio? Sì! Crediamo che Muhammad è il Suo Profeta? Sì! Crediamo che il Corano è la Legge di Allah dettata al Suo Profeta? Sì! Allora non c’è altro da cercare; c’è solo da applicare alla lettera la Sua legge!”. Il pericolo del salafismo è il suo rapporto con i testi. I musulmani in generale, nei loro tentativi di riformare l'islam, si trovano di fronte al rapporto con i testi. È un problema che devono affrontare; è la sfida per l'islam contemporaneo. Altrimenti il pericolo che la lettura dei testi provochi violenza non sarà disinnescato». Una sfida, secondo il direttore dell’Ideo, che l’islam contemporaneo non ha risorse per cogliere, talmente è impegnato nelle lotte interne tra fazioni (sciiti, sunniti, e al loro interno wahabiti, salafiti, ecc.), come nelle rivalità geopolitiche per il controllo del medio-oriente. Eppure proprio la strumentazione che l’Istituto propone di condividere per la ricerca fondamentale sulle fonti dell’islam, sarebbe di grande aiuto per superare le profonde divisioni interne al mondo musulmano. «Tre domande possono illustrare queste divisioni: la questione morale (dovremmo preservare l'intera legge islamica, e se è così, dovrebbe davvero essere applicata alla lettera, o dovremmo rinunciare a preservare tutte queste leggi e abbandonare ufficialmente parti di esse?); la questione del regime politico ideale per l’islam (califfato, regno, repubblica?); la questione del rapporto con il passato (ritorno a un passato ideale? selezione e reinterpretazione?)». Con tristezza il Direttore dell’Ideo ci rivela che, dal 2014 – anno di proclamazione del califfato di Daesh –, la frequentazione di ricercatori musulmani è in costante calo, e che, per ora, il dialogo diplomatico culminato con il testo comune firmato ad Abu Dabi da Papa Francesco e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayeb della moschea Al-Azhar, ha creato seri problemi a quest’ultimo in seno al mondo musulmano (tant’è vero che il previsto incontro del nostro gruppo con l’imam Ahmad Al-Tayeb è stato annullato).

 

5000 anni di civiltà nelle vene

Di fronte allo Scriba della V Dinastia non si può restare indifferenti: sono quattromilacinquecento anni che ci parla di bellezza, di intelligenza, di cultura, di sapienza. Dall’unificazione dei due regni (Alto e Basso Nilo) l’Egitto conta cinquantuno secoli di civiltà. Gli egiziani lo sanno, lo sentono; la nostra guida non manca di ricordarcelo. Non importa quante volte nella loro storia millenaria siano stati in testa o in coda agli altri popoli, quanti periodi luminosi o bui abbiano attraversato, la loro identità è più antica delle etichette di oggi, è più profonda della vetrina del potere (analogo sentimento avevo percepito negli anni vissuti in Messico, la più antica civiltà del continente americano). «Welcome to Egypt!», ci ripetono i giovani per strada, dandoci il benvenuto nel Paese della civiltà millenaria; e ci chiedono di entrare nei loro selfies, persino le ragazze in niqāab (come faranno a riconoscersi in fondo a quella fessura?!?). Della doppia rivoluzione ci parlano come prova che l’identità egiziana è forte e solida in mezzo alla tempesta: una rivoluzione ha messo al potere i Fratelli Musulmani (2011), un’altra ha spazzato via i fondamentalisti (2013). Definiscono la storia recente – da Nasser in poi – una «democratura»: neologismo intelligente e appropriato. Che sia l’applicazione politica dell’asharismo, la via di mezzo teologica? Con fierezza e un po` di autoindulgenza, gli egiziani ci invitano a considerare l’esempio di una nazione che sa far convivere nella quotidianità musulmani e cristiani, che sa reagire agli integralismi, che sa navigare nella geopolitica rischiosa del medio-oriente: «Forse non siamo i più forti, ma la sappiamo più lunga; fidatevi di noi!».

 

Prudenti come serpenti e semplici come colombe

Nel quartiere degli spazzini di Mokattam, in mezzo al puzzo e ai sacchi di spazzatura, suor Sarah Ayoub Ghattas ci racconta le sue prime notti nella baracca di lamiera con suor Emmanuelle, quando dormivano con le scarpe ai piedi e la coperta tirata fin sopra la testa per non farsi rosicchiare dai topi. Grazie a loro oggi le baracche sono state sostituite dalle case in mattoni, i carretti dai camioncini e i bambini sottratti alla fatica di rimestare nel pattume, a selezionare quanto può essere riciclato o riutilizzato, per frequentare la scuola della Congregazione. Durante il viaggio abbiamo incontrato quotidianamente religiosi e religiose (copto-cattolici o copto-ortodossi) impegnati, in situazioni sociali eterogenee, ad animare scuole, sanatori, orfanotrofi, aperti a tutti senza distinzioni di religione. Anche nelle loro scuole, agli studenti musulmani l’insegnamento religioso è impartito da musulmani, ai cristiani da ortodossi o cattolici. Fraternità e accoglienza sono il terreno di dialogo con le famiglie; riconoscersi l’un l’altro “credenti” fonda il rispetto e l’incontro, ma raramente permette di varcare la soglia del dialogo religioso. Fraternità e accoglienza: atteggiamenti non scontati, sempre in costruzione, pure in un paese che conosce da millenni il pluralismo e le rivalità tra religioni (fin dai tempi in cui un nuovo faraone imponeva un nuovo culto, come fece Akhenaton, imponendo il culto del dio Aton, poi abolito dal figlio Tutankhamon). Rispetto e incontro minacciati, in Egitto, dall’integralismo dijadista dei Fratelli Musulmani. Nata nel 1928, la Società dei Fratelli Musulmani semina la morte e il terrore fin dall’assassinio ‒ il 28 dicembre 1948 ‒ di Mahmoud an-Nukrashi Pacha, Primo Ministro dell’epoca. Negli ultimi dieci anni decine di chiese e centinaia di cristiani sono rimasti vittime del terrorismo integralista. Non stupisce dunque che, nei corridoi e off-record, religiosi e religiose, lasciando l’abituale prudenza dei discorsi ufficiali, ci raccomandino la più grande vigilanza contro il proselitismo dei fondamentalisti: «Non lasciate loro prendere radici in Francia, ve ne pentirete!» La frase risuona ancora quando li salutiamo sul portone dei loro monasteri o delle chiese... presidiati dai blindati dell’esercito.

 

L’incontro più inatteso

«Per attraversare la notte oscura una mano che prende la tua dà più sicurezza di una torcia»; con queste parole ci accoglie il vescovo Anba Thomas ad Anafora, un’oasi di spiritualità, di incontro e di accoglienza, nel deserto, a nord de Il Cairo. Creata nel 1999 dal prelato copto-ortodosso, è un luogo di incontro per tutti coloro che sono in ricerca, che si interrogano sul senso della vita. Le casette per gli ospiti sono disposte sul tracciato di un punto interrogativo, il cui punto finale è la Rotonda, cappella di meditazione e di raccoglimento. Accanto sorge la Sala della Preghiera, illuminata da una finestra sulla cupola in forma di occhio di Dio e ricoperta al suolo di tappeti; cinque volte al giorno i monaci propongono un tempo di preghiera, con una liturgia sobria e melodica, che, dall’originale copto, ha estratto l’essenziale per creare un ponte sulle culture, lingue e religioni dei pellegrini, giovani e meno giovani, che vi partecipano. Salmodiando il bel canto ortodosso in tante lingue differenti, abbiamo capito perché Anafora è citata in Francia come la Taizé dell’Oriente. Quella ai pellegrini è solo una delle declinazioni dell’accoglienza; le altre sono rivolte agli “ultimi” della regione: bambini abbandonati o sfruttati, donne vittime di violenze. Nel lavoro della terra (rigorosamente biologico) e dei laboratori artigianali, o nelle classi della scuola, trovano rifugio per guarire le loro piaghe, accompagnati umilmente e pazientemente dai fratelli e sorelle della comunità, molto rispettosi dei tempi e delle difficoltà di ciascuno. «Dobbiamo imparare a metterci in ginocchiospiega Anba Thomas ‒; metterci al livello di chi è caduto e prostrato, per poi sollevarci insieme. È questo il significato profondo di ana-phora: portare verso l’alto».

Ripenso alle occasioni che ho avuto di aiutare qualcuno a rialzarsi, sempre dall’alto del mio metro-e-ottantadue; mai mi sono inginocchiato; riuscirò ancora ad imparare?

 

Non solo desiderio di convincere l’Altro

Che cosa cercava Francesco di Assisi a Damietta nell’autunno del 1219? Certamente di annunciare il Vangelo di Cristo al Sultano; probabilmente di fare un passo oltre le trincee dello scontro per testimoniare un possibile incontro; forse persino di affrontare il martirio. Sfrondata l’agiografia francescana degli elementi leggendari, si impone oggi con sempre più forza il messaggio del Santo sul valore intrinseco dell’incontro con l’Alterità. Anche quando l’Altro non sembra accogliere il dialogo, se non nella forma di una cortese benevolenza. I semi del dialogo germogliarono certamente in Francesco, indipendentemente dalla sorte che ebbero in terreno musulmano. Al calar del sole sul molo di Damietta, fratel Stéphane Delavelle ci faceva notare che «nel capitolo XVI della sua prima Regula non bullata Francesco utilizza il termine “sottomissione” per indicare l’atteggiamento dei “fratelli che vanno presso i Saraceni e altri infedeli”» Sottomesso (a Dio) è il significato letterale del nome verbale arabo muslim; potrebbe non essere un caso che Francesco lo utilizzi proprio in questo contesto: «I frati poi che vanno presso i Saraceni e altri infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano sottomessi a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L'altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore» (Regula non bullata XVI,43).

Stefano Casadio

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