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società
477 - Un docufilm Netflix che fa discutere |
San Patrignano, o del male che c’è nel bene
Ho visto in modo compulsivo la serie Sanpa prodotta da Netflix: un documentario complesso ed equilibrato, che attinge da interviste e testimonianze sia a favore che contro, costato 3 anni di lavoro, le cui 5 puntate (Nascita, Crescita, Fama, Declino, Caduta) esaminano la storia di San Patrignano fin dall’inizio nel 1978. |
Solo la prima puntata, Nascita, può essere definita neutrale: un ripasso di cos’era il consumo di eroina e di cocaina negli anni 70, dal punto di vista dei primi ospiti di San Patrignano, allora poco più di un poderetto a Coriano in provincia di Rimini, dato a Muccioli dal suocero in occasione delle nozze e che diventerà la più grande comunità terapeutica d’Europa. Il racconto è condotto attraverso una scrittura attenta, senza sbavature, con un mix tra materiale d’epoca e interviste di ex ospiti molto efficace, fino alla morte di Muccioli che ne esce alla fine come un gigante in frantumi, un personaggio tragico nel senso letterale della parola. Un contatore inesorabile mostra anno dopo anno l’espandersi della comunità fino ad arrivare negli ultimi anni a oltre 2000 ospiti. Gli intervistati di oggi parlano distesamente da casa loro. Parlano Andrea Muccioli e il fratello minore di Vincenzo, Pier Andrea, parlano il giudice istruttore Vincenzo Antonucci e il “traditore” Walter Delogu, autista di Muccioli, parlano Antonio Boschini, il medico di San Patrignano, e Fabio Cantelli, portavoce della comunità negli ultimi anni, ma parla soprattutto Vincenzo Muccioli nelle situazioni più disparate.
Fin dall’inizio Muccioli attrae e respinge lo spettatore: giovane vitellone riminese, truffatore di carattere, pecora nera della famiglia, poi il matrimonio e l’idea di una comunità per aiutare i giovani drogati. La figura fisica imponente, lo sguardo magnetico, la stazza ingombrante, la voce baritonale. Sorride, abbraccia, parla appassionatamente, dà pacche sulle spalle, nelle interviste si colloca di solito tra due ragazzi mettendo loro le mani sulle spalle: atteggiamento chiaramente paternalista, ma che fino a un certo punto sembra paternalismo buono. Eppure fin dagli anni ’80 con il «processo delle catene» emerge il nodo centrale: l’idea che per raddrizzare queste vite ci vogliono gli schiaffoni, che lui elargisce personalmente, e se necessario anche la reclusione coatta. Le foto inedite di Luciano Nigro, allora giornalista dell’«Unità», mostrano garage e stalle immonde con ragazzi incatenati: per il loro bene ‒ dice al processo Muccioli: se vedi uno che si vuole gettare nel fiume non lo trattieni a forza perché non si butti? Il legame tra AIDS e droga ‒ le strutture erano carenti e “nessuno li voleva” ‒ ha influito fortemente sull’espansione di San Patrignano.
Ho visto il documentario come se fosse un trattato di filosofia morale. Immagino che non sia il modo giusto, ma mi interessa il problema del rapporto tra capi, fondatori e leader, e la “comunità” che cresce attorno a loro: da don Bosco a Chiara Lubich, dalle vicende della comunità di Bose alla mia scuola di 1700 allievi e oltre 200 tra colleghi e collaboratori scolastici. Solo un ingenuo può pretendere che i capi – soprattutto carismatici ‒ siano solo luce. Ma quanto male c’è nel bene? Quanto male siamo disposti a sopportare nel bene? Fabio Cantelli, l’ex ospite diventato capo ufficio stampa, sintetizza così: «Ci sono regioni della vita in cui vita e morte sono così intrecciate che concetti come libertà, volontà, male, bene vanno rivisti e bisogna avere il coraggio di non usarli come assoluti». Il film presenta Muccioli come responsabile ultimo del bene e del male compiuti a San Patrignano: il male annidato nel bene, la zizzania e il grano che crescono insieme. San Patrignano è stato un tentativo di addomesticare il male che a sua volta ha prodotto del male: dalle catene al suicidio di Natalia Berla e all’omicidio di Roberto Maranzano. Possiamo fare esperienza di un bene che non contenga altro che bene? Forse possiamo cercare di minimizzare il male, pretendere di eliminarlo significherebbe in ultima analisi porsi in una situazione di in-differenza, tenersi a distanza, girare la testa. Certamente ci sono state comunità e metodi diversi da San Patrignano, e forse fin dall’inizio preferibili. Un ex ospite che fa il terapeuta dice: San Patrignano è stato importante per il mio lavoro, perché rappresenta il manuale delle cose che non devo fare.
Ma ci sono altri aspetti del male meno appariscenti e però forse per questo più inquietanti: San Patrignano non sarebbe diventata quello che è senza l’aiuto di una delle famiglie più potenti e ricche d’Italia, i Moratti, Gianmarco e Letizia. Non solo soldi a palate, ma anche il sostegno morale con Letizia Moratti presidente della Rai all’epoca della “caduta” di Muccioli. Quando San Patrignano sta diventando esageratamente grande, il criterio per l’ingresso spesso diventa la notorietà del tossico: il «figlio di», il figlio di Paolo Villaggio con altri del mondo dello spettacolo e della politica.
Penso alla piccola Barbiana e a don Milani che diceva che non si possono amare più di 30 cristiani. Dire di amare duemila persone è una pericolosa menzogna. Anche di don Milani, come di don Bosco e di altri, carsicamente emerge l’idea dell’omosessualità. Certo vedere il gigante crollare sotto il peso del processo, che pure lo aveva assolto da omicidio colposo e accusato “solo” di favoreggiamento fa impressione, così come impressiona la morte di Muccioli di Aids. Se è morto di Aids, e se dietro questa morte c’è un rapporto particolare con il primo dei ragazzi di San Patrignano morto di Aids, questo non rende Muccioli meno umano, ma se mai più umano, se non si fosse costruito come un personaggio pubblico intangibile, inattaccabile, in fondo onnipotente. Tutto luce e niente ombre.
Antonello Ronca
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