Anche la scelta del momento della rottura del governo Conte non è stata casuale, perché ora si deve decidere il piano per l’impiego dei fondi europei. Questa è infatti l’ultima spiaggia per l’Italia, e siamo già in ritardo. È da quando è stato istituito l’euro che balliamo sull’orlo del burrone. Da allora tutti i governi italiani (senza distinzione di colore) hanno avuto una sola preoccupazione: tenere sotto controllo l’ingente debito pubblico che cresce per forza propria a causa del suo stesso peso, senza mai riuscirci veramente. Hanno strozzato sempre più l’economia e ridotto i servizi pubblici oltre l’accattabile, senza però fermare la scalata del debito. Ora, grazie allo sconquasso che la pandemia ha creato, finalmente i paesi del nord Europa si sono convinti che non possiamo più reggere l’austerità e che l’affondamento dell’Italia (che non ha lo stesso peso della Grecia) porterebbe a fondo l’Unione. Hanno deciso di concederci un sostanzioso finanziamento, mettendoci, almeno come possibilità, in condizioni di riformare la nostra economia.
Il governo Draghi ha quindi questo compito. E infatti il suo programma presenta come priorità proprio le principali criticità italiane: emergenza sanitaria, scuola, giustizia, burocrazia, sistema fiscale, transizione ecologica. Anche la formazione del governo risponde alla stessa logica, con i ministeri cruciali assegnati a uomini di sua fiducia, quasi tutti non parlamentari, e gli altri distribuiti ai partiti che lo sostengono secondo il loro peso parlamentare. L’impresa comunque appare ardua per le molte difficoltà che dovrà superare, perché la situazione italiana è veramente molto compromessa, i nostri mali incancreniti, la politica sfilacciata e inconsistente e la situazione sociale, dopo 30 anni di tagli e sacrifici non più sostenibile, col pericolo che la società si lasci allettare, come è già accaduto troppe volte, da demagoghi senza scrupoli e venga trascinata in avventure pericolose.
Quest’ultima osservazione ci induce a due considerazioni sulla fragilità del corpo elettorale e quindi della democrazia italiana. Per tentare di rimettere in sesto l’Italia bisogna ancora una volta ricorrere a personaggi che non debbano partecipare alle elezioni e che quindi possano prendere i provvedimenti necessari senza paura di perderle. C’è poi l’idea, ancora profondamente radicata in molti italiani, che basti un superuomo per risolverci tutti i problemi, in modo che non ci sia bisogno di impegnarsi, partecipare, fare sacrifici, cambiare vecchie e rovinose abitudini. Sarebbe tempo che, a cominciare dalla scuola, ci si dedicasse anche a far crescere la coscienza politica del paese.
In questo quadro non mancano le ombre e i motivi di preoccupazione. L'Italia è l'unico tra i 27 paesi dell'Unione Europea in cui in piena pandemia la politica sia stata commissariata ai tecnici. In tutti gli altri paesi non soltanto dell’UE ma del mondo, anche nell’emergenza pandemica la politica resta in mano ai partiti e ai governanti eletti (e in un paese normale anche la preziosissima risorsa Draghi sarebbe stata valorizzata affidandogli il super-ministero dell’Economia). Per di più, in quest’anomalia siamo recidivi. Accadde meno di dieci anni fa con Monti, accade oggi con un altro Super-Mario. Alcuni ritengono sia il segno di una democrazia gravemente malata. E qualcuno teme che la terapia ripetutamente proposta rischi di ammazzare il paziente, alimentando sempre nuovi populismi. Domani potrebbe toccare a Meloni, per di più associata al centrodestra che ha l’intelligenza di colpire insieme anche quando marcia diviso. Non a caso Salvini ha già detto che la legge elettorale non si cambia.
Va inoltre ricordato che una forte opposizione era venuta da Confindustria al reddito di cittadinanza e alle proroghe della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti. Ora il principale ministero economico rimasto in mano a un esponente di partito è quello dello Sviluppo Economico, affidato a Giancarlo Giorgetti, che è da tutti considerato il portavoce delle imprese lombarde vicine alla Lega. Ma se la svolta prodotta dall’operazione di Renzi fosse questa, qualche interrogativo la sinistra dovrebbe porselo.
Infine, grandi aspettative erano e sono riposte nel nuovo ministero della Transizione Ecologica. Tuttavia la scelta del ministro è parsa deludente: uno scienziato che non si era sinora occupato di ambiente, più noto ai frequentatori della Leopolda o dei convegni di Casaleggio, criticato da illustri colleghi per il modo di procacciarsi i finanziamenti: e come non bastasse – nella sua attività di ricerca ‒ al soldo di una delle più importanti aziende impegnate nella produzione di armi (destinate anche all’Arabia Saudita, verso cui il governo Conte ne aveva fermata l’esportazione, prima che Renzi vi scorgesse «un nuovo Rinascimento»). Ci auguriamo che il suo operato smentisca i timori.
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