Il valore de il foglio
Fino a pochi anni fa, a chi mi chiedeva quali valori attribuissi all’esperienza de il foglio, rispondevo senza esitazione: «Il primo è: dimostrare concretamente che la libertà di stampa esiste, sol che si voglia esercitarla». Un gruppo di redattori diversamente talentuosi nello scrivere, nell’impaginare, nel correggere, nell’imbustare, una cerchia di simpatizzanti più o meno prolifici di contributi, un pubblico di abbonati relativamente contenuto, ma fedele e talvolta generoso, hanno fatto vivere la stampa di un giornale senza pubblicità, senza padroni, senza sponsor ingombranti. Certo i redattori si piegano a tutti i mestieri, dal volo pindarico alla pedalata del fattorino, senza alcuna remunerazione se non un trancio di pizza una volta all’anno. Certo le varie fasi della lavorazione – impaginazione, correzione bozze, stampa e spedizione – si insinuano nei tempi morti della “vera” stampa per risparmiare ogni centesimo possibile sui costi di produzione. Certo i lettori paganti sono scelti accuratamente per la loro proverbiale indulgenza ad accettare uscite ritardate, numeri doppi, copie andate perse e poi recuperate a mano. Ma, insomma, sono cinquant’anni che il foglio esiste, s’impegna, s’indigna, s’interroga, si litiga, studia, ascolta, risponde, riflette. In altre parole, dice la sua. Libertà di stampa, appunto, senza i compromessi o le autocensure di confratelli – si parva licet componere magnis – che, negli stessi anni, hanno conosciuto le occhiatacce di interessati censori sulla propria linea editoriale.
Ma, da poco più di un decennio, per «dire la sua» non c’è più bisogno della libertà di stampa. Basta un post su Fb, o un tweet, o un blog autoreferenziale, e chiunque, gratis, può dire e pubblicare la sua. Gli attori di questa nuova libertà crescono in tendenza esponenziale, e i fruitori (o follower) anche peggio.
Sovrastato dalla chimera di nuova libertà dei social network, che cosa rispondo oggi all’antica domanda? Quale valore differenziante rivendico per il foglio? Senza esitazione dico: «Il lavoro redazionale ‒ il cui prodotto è la colonna, talvolta una e mezza, raramente due, a sinistra in prima e ottava ‒ dove si esprime il consenso dei redattori». È vero che nasce sempre da una stesura individuale, ma raramente la passa liscia. Si discute, si ammenda, si integra, si corregge, si taglia e si ricuce. È un esercizio mensile di sensibilità, ascolto, dialettica, convinzione, retorica. Un esercizio dove la prevalenza del pronome di prima persona (nel caso di un editoriale firmato) ha un sapore di sconfitta, rispetto alla soddisfazione del “noi” (tutti gli editoriali non firmati). In un mondo ormai avvolto dalla ragnatela – il web – in cui chiunque può urlare la sua frase, prima ancora di avere terminato di pensarla, impiegare del tempo a passarsi un capoverso fino a che ciascuno possa sentirlo suo, è come vivere sul pianeta del Petit Prince.
Voglio credere che sia anche per questo se i lettori ci accompagnano nel viaggio.
Stefano Casadio |