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chiesa
Matteo e Luca hanno una loro tradizione propria quasi in esclusiva: ad es. solo in Luca ci sono le parabole del Buon Samaritano, del Prodigo, del ricco Epulone, del Fariseo e Pubblicano ecc. L'ossessione del giudizio Ma ora ci interessa la fonte particolare, specifica di Matteo (che chiamiamo Matteo II): anche qui si tratta in buona parte delle cosiddette “nuove parabole” presenti solo nel primo vangelo. Escludendo quella del tesoro nascosto e della perla preziosa, sono tutte di “giudizio-condanna” (la grande ossessione di Mt II): oltre alla nostra del giudizio universale, quelle della zizzania, della rete dei pesci, del servo spietato, dei due figli (21,28-32), dell'abito nuziale, delle 10 vergini. Per lui il fattore determinante del cristianesimo è che ci sarà certamente il giudizio (finito poi nell'immaginario collettivo veicolato dalla Commedia dantesca), tremendo come la situazione iniziale del servo spietato, debitore a Dio dell'enorme somma di 10000 talenti; per accumulare un simile debito miliardario occorre aver commesso un... genocidio. In Mt 22,11-14 invece è per non aver indossato l'abito nuziale [il battesimo? E poi la grazia “abituale” (come un abito che si indossa)?], situato fra l'altro in un contesto-posizione assurda dopo che i servi hanno raccattato per strada poveri, storpi, ciechi e zoppi (in Luca 14,21), buoni e cattivi (!!) in Matteo. In 22,1 si dice che Gesù riprese a parlar loro in parabole (al plurale), ma ne segue una sola: probabilmente a quella del banchetto nuziale seguivano le 10 vergini (con lo sposo che arriva), e quindi, continuando in modo più appropriato, la necessità della veste nuziale per la cena delle nozze. Qualcuno però ha spostato le 10 vergini più avanti all'inizio del cap. 25 (in un contesto più escatologico sul giorno e sull'ora, e per maggior affinità con quella del maggiordomo e del vegliare per non essere sorpresi), senza preoccuparsi che col buco si veniva a creare la stravaganza degli abbigliamenti da nozze per dei raccattati in strada. Ma ciò significa (cosa importante) che il Matteo finale incamera con rispetto la sua tradizione (il duro Matteo II) senza cavillare e forse senza concordare sempre in pieno con lui. Tutto questo è già un buon motivo per considerare tutta la seconda parte della nostra parabola come opera secondaria e posteriore del Mt II: quella, diciamo, sui non-giusti; cioè gli altri, quelli di sinistra, i capri separati dalle pecore, solo apostrofati come “maledetti” ma mai definiti, se non per l'omissione delle opere di misericordia-giustizia (almeno le prime più di giustizia che di “buon cuore”). Però ci sono altre ragioni: infatti impera dal v. 37 in poi il vocativo «Signore» (Kyrie); è una regola quasi fissa nei vangeli: quando compare tale vocativo è un inserimento rielaborante della comunità primitiva che era solita così invocare il Cristo nelle proprie eucarestie-liturgie [come Kyrie eleison; solo il vecchio Simeone (Lc 2,29) lo chiama «despota», che non ha il senso dell'italiano bensì quello antico generico di «sovrano»]. All'inizio si parla di tutti i popoli col figlio dell'uomo che siederà sul trono della sua gloria coi suoi angeli, nell'ambito dell'escatologia-apocalittica ebraica con la sua angelologia e demonologia; ci sono gli angeli col figlio dell'uomo (25,31), ma sono chiamati angeli pure gli adepti del diavolo (25,41): ciò è tipico della mitologia giudaica e poi gnostica. Poi invece il quadro da universale si fa cristiano; in modo intra-ecclesiale il referente diventa il Signore (Kyrios) con i suoi fratelli più piccoli (i cristiani; anche se i «miei fratelli» nel v. 40 mancano in alcuni manoscritti tra cui il Vaticano). I giudicati (giusti e non giusti) sono cristiani! Le parabole della zizzania e della rete mostrano la coesistenza (anche nella chiesa?) dei figli del regno e di figli del maligno, che solo alla fine saranno separati. Tre per due non fa sette Un altro motivo è che Matteo II privilegia il numero due (doppio) o il tre (triplo) a volte abbinati come qui in tre paia di bisognosi [Emanuel Hirsch, Frühgeschichte (Protostoria) II, 322]. Mentre nel v. 35s le opere di misericordia si snodano in maniera continua senza suddivisioni, nei vv. 37-39 sono raggruppate a tre per due: affamati-assetati (v. 37) // stranieri-nudi (v. 38) // ammalati-carcerati (v. 39), ossia in una triplice doppietta: 2+2+2 = 6 [appunto un multiplo sia di due che di tre; solo molto più tardi sono diventate le classiche sette opere di misericordia corporali con l'aggiunta del “seppellire i morti”]. Invece l'evangelista Matteo ama le grandi composizioni-costruzioni basate sul numero 7. Anche le beatitudini sono sette (non nove): le 4 di Luca dalla fonte Q (una sola per i perseguitati: 5,11s è un raddoppio ecclesiale) più le tre aggiunte: misericordiosi, puri di cuori, operatori di pace. Quella sui miti è una glossa posteriore, tanto che in alcuni codici (come la Vulgata) è prima degli afflitti (inversione dei vv. 5-4; non era chiaro dove piazzarla). Sono sette anche le parabole di Matteo 13. Esemplare è poi Mt 23,13-32 con la fusione dei tre-quattro guai di Q e di Luca con altro materiale per portare rigorosamente a sette il numero dei guai contro gli scribi e farisei ipocriti. Invece Mt II ama le terne, come nel vero compimento della legge in Mt 23,23: giustizia, misericordia, fedeltà. Risultava comunque indigeribile per il suo filo-giudaismo che Gesù avesse superato (abolito) il dovere delle decime (all'inizio del versetto) per cui aggiunge «senza omettere quelle» (cioè le decime); salvando con la segretezza pure le elemosine e i digiuni privati, col suo ritornello ossessivo «il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6.18; il «Dio ti vede» pure confluito nell'immaginario collettivo). Conclusione: la seconda parte del giudizio universale proviene dalla fonte particolare di Matteo (il Mt II), compresa la condanna al fuoco-supplizio eterno. Tale fonte si contraddistingue altresì per delle proclamazioni “spinose” (sue, mentre i fedeli le pensano come parole di Gesù tout court): è una costante il suo filo-giudaismo nazionalista [«Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele» (15,24); e «Non andate nella via dei pagani e non entrare in nessuna città dei Samaritani» (10,5)]. Si caratterizza pure per la sua durezza [Mt 5,22: «chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio (il gran Consiglio ebraico!); e chi dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna»]. Prendendo in considerazione Mt 18,15-20 emerge la sua intransigenza: ad es. la riconciliazione, se non si risolve sulla parola di due o tre testimoni [ancora il due/tre], passa all'assemblea con eventuale sentenza di messa al bando (la futura scomunica) come un pagano e pubblicano (in maniera... sovranista i pagano-stranieri sono equiparati ai pubblicani: 18,15-17). Purtroppo il sovranismo populista in un vangelo c'è: nel Matteo II che più di ogni altro ha influenzato il cattolicesimo storico. Si evidenziano autoritarismo [18,18: «Tutto quello che legherete sopra la terra...» lo sarà anche in cielo (= per/da Dio), e potenza della preghiera: «Se due di voi [ancora il due] si accorderanno per domandare qualunque cosa..» (18,19). Ma la cosa forse peggiore (che ha già il sapore della crociata) è il pesantissimo Mt 12,30: «Chi non è con me è contro di me», in antitesi a Mc 9,40 («Chi non è contro di noi è per noi»), dopo che quel “fanatico” di Giovanni aveva bloccato un esorcista perché non era dei “nostri”. La cosa migliore (sempre con la sua firma del due/tre) è invece «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro» (18,20). Il “ti” mancante Possiamo quindi prendere in considerare solo 25,31-36, ossia la primissima parte originaria di accoglienza nel Regno che riguarda solo i giusti: corroborata da Mt 24,31 e Mc 13,27 (tutti i suoi eletti radunati dai quattro venti). Potrebbe esserci una correlazione, tipica del mondo ebraico-biblico, fra il bastone e lo scettro, fra il pastore e il re; due parole ebraiche (matteh e sebet, soprattutto se abbinate) significano alternativamente sia “bastone” (anche quello del pastore che conta le pecore), sia “scettro” (del Re), e pure “tribù” [cfr l'articolo di Anna Angiolini Bastoni, scettri e rami nell'AT (2005), www.ledonline.it/acme/]. Ossia linguisticamente e semanticamente l'immagine del pastore fa da traino verso l'immagine del Re e quella delle tribù (popoli, genti). Ma prima di abbandonare definitivamente il 37-38 dobbiamo evidenziare un fatto strano: «Quando mai ti abbiamo visto affamato e... abbiamo dato da mangiare, forestiero e ... abbiamo ospitato» [senza il secondo ti, messo solo da alcuni codici (oltre che dalle traduzioni) per coerenza logico-formale]. Più duro nelle seconde semifrasi (poiché il primo ti è lontano): «o assetato e ... abbiamo dato da bere, o nudo e ... abbiamo vestito». Sono una spia che erano fondamentali le opere per i poveri, e aggiuntiva la presenza laterale del Cristo: «neanche-neppure (oudè) a me l'avete fatto», anziché l'inesatto «non l'avete fatto a me» (v. 45). Originariamente quindi la paraboletta o il detto breve poteva suonare all'incirca: «Quando il figlio dell'uomo verrà [quale pastore che conta-suddivide le sue pecore e quale Re di giustizia per le sue tribù (popoli, genti)], chiamerà a sé (alla sua destra) i giusti dicendo loro: «Venite benedetti del Padre mio nel Regno, perché, dando da mangiare e da bere a chi aveva fame..., l'avete fatto (anche) a me» (in solidarietà). Tenendo presente che in Mt 19,16s, alla domanda del (giovane) ricco su come ottenere la vita eterna, Gesù risponde: «Se vuoi entrare nella vita (senza eterna), osserva i comandamenti...», e mantenendo in parte la chiusura (45s), possiamo interpretare: «Entrate giusti nella vita vera, in quel “mistero senza fine” dell'esistenza che già avete imparato a (ri)conoscere e ad amare nell'accudire gli Ultimi e i più piccoli» (tutti; non limitati ai cristiani, poiché nel v. 45 non ci sono i fratelli di fede, come giustamente nell'ultima ed. della CEI che ha corretto quelle precedenti). Questa primissima parte può essere gesuana? Pensiamo di sì, ma senza l'identificazione al Cristo (Gesù non era interessato a se stesso): «Venite benedetti perché avete dato da mangiare e da bere...» con generosità in modo totalmente gratuito (senza presenze occulte). Consideriamo probabile l'attribuzione a Gesù soprattutto perché le chiese non si sarebbero mai sognate una salvezza tout court che prescinda dalla fede. Infatti esse (che pensano invece spesso in modo autoreferenziale) non hanno gradito e, inserendo l'io ero affamato..., hanno cristologizzato il gesto di misericordia verso il povero come se fosse nei confronti di Gesù stesso (presente nei bisognosi), introducendo il contraccambio diretto (do ut des) col Cristo, e facendo rientrare almeno implicitamente dalla finestra quella fede che era uscita dalla porta. Mauro Pedrazzoli
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