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teologia
484 - La via percorsa da Aldo Bodrato / 4 |
Dire Dio nelle storie (mancine) di uomini
«Il paradiso, come la terra, non è fatto solo di militanti politici, ma anche di mercanti, poeti, pescatori e massaie, tornitori, sindacalisti e mimi, prostitute e peccatori di ogni genere, e, perché no, di monaci, vescovi e, buoni ultimi, quasi nel limbo, di laici ‘non qualificati’ né qualificabili, per i troppi e troppo superficiali impegni tenuti insieme nella loro vita sbiadita e confusa» (Quale Dio? p. 249). |
Se si devono perdonare a Bodrato le misere categorie in cui ha rinchiuso il femminile, non è invece irrilevante unirsi al coro di chi è gettato nella vita frastornata e confusa dalla quale ritagliare uno spazio (paradisiaco) per la vita del pensiero. E quello della teologia narrativa è certo un bel rompicapo sul quale si legge molto ma si ricava poco. Tentare di capire di che cosa stiamo parlando sarà utile per meglio apprezzare l’apporto del nostro autore, il quale è stato un divertito e ironico affabulatore di storie per quanto non necessariamente di tono, significato o valore teologico. Tuttavia, a ragione della sua profonda attenzione per le vie sperimentali del dire il divino, molte delle sue novelle contengono inevitabilmente un esplicito riferimento al discorso religioso.
Per fortuna c’è la Bibbia
Dagli anni Settanta in poi, pur con una certa oscillazione nell’interesse, sono state numerose le pubblicazioni dedicate al recupero e valorizzazione della dimensione narrativa della fede. Tra le più recenti basterà citare G. Ravasi, B. Salvarani, G. Ruggieri, J.-P. Sonnet e C. Théobald per rendere l’idea della portata della riflessione. Se però usciamo dall’ambito dei teorizzatori per fare i nomi di coloro che quella via l’hanno praticata, potremmo nominarne davvero pochi: R. Alves, C. Bobin, P. D’Ors, A. Zarri, oltre naturalmente al nostro Bodrato. Al momento attuale l’applicazione più promettente, almeno fintanto che la letteratura non entrerà a far parte della formazione teologica, sembra quella del teologo cultore che integra nel proprio discorso la letteratura, il cinema, l’arte e in casi più rari la musica e il teatro ‒ tra questi ricordiamo F. Brancato, E. Castellucci, T. Mendonça, R. Williams. In breve, se non avessimo la Bibbia in cui la teologia narrativa abbonda, al momento faticheremmo a dire di che cosa si tratti e di quali potenzialità disponga.
Ancor prima della penetrazione in ambito teologico, il rapporto tra Dio e il racconto sembra avere a che fare soprattutto con l’homo narrans ovvero con la dimensione narrativa dell’esistenza, altamente rivelatrice per il discorso sulla fede, come ben spiega Theobald: «l’atto di fede propriamente teologale resta il risultato di una sintesi che simultaneamente si prova e si comprende come realizzazione, persino come incarnazione di un ‘disegno divino’ di cui può rendere conto solo un pensiero narrativo in forma olistica» (I racconti di Dio, EDB 2015, p. 23). Lo stesso kérygma è una narrazione ed è nella forma del racconto che la rivelazione divina attraversa le generazioni. Né possiamo dimenticare come lo stesso Gesù abbia narrato in parabole la realtà del Padre e del Regno. La fede discende allora da un racconto, prima accolto e poi assunto nella vita di ogni credente, e tale racconto fondativo entra nelle storie di ciascuno, storie di dubbio e di lotta, di ribellione e di abbandono, a loro volta riprodotte e riscritte in storie di crisi che restituiscono un mondo frammentato (la poesia dopo Auschwitz) e deforme (il cubismo), distopico (il cinema apocalittico) e malato (la letteratura sulla peste). Storie in cui la traccia del divino carsicamente riappare, ma nella condizione di un mondo chiamato a vivere etsi Deus non daretur (Bonhoeffer).
Il lettore chiamato in causa
Quello che fa la teologia narrativa è problematizzare il discorso teologico dispiegandolo in storie, vissute o immaginate, nel quale il lettore può riconoscersi e dunque decidere di lasciarsi coinvolgere, rivivendole in prima persona. Tale processo di identificazione è messo in atto dalla stessa strategia del racconto, che instaura un rapporto tra testo e lettore, nel quale il lettore è chiamato in causa perché cooperi al funzionamento del testo, intervenga attivamente a colmarne gli spazi bianchi, ne sperimenti la forza di senso, si lasci trasformare. Questo significa, ad esempio, che nella stessa lettura dei vangeli il lettore incontra il Cristo alla stregua dei tanti personaggi evangelici che Gesù ha incontrato sulla sua strada e, come loro, è invitato alla conversione. In questo modo il racconto non solo ha generato, ma continua a generare nuovi racconti, nel senso di diverse risposte di fede, inevitabilmente plurali per la singolarità dei percorsi di ogni uomo e di ogni donna: «Non potendo mai essere definito, l’incomparabile in noi chiede quindi di essere raccontato: essere raccontato in una moltiplicazione di racconti individuali e collettivi» (Theobald, cit., p. 56). Una pluralità già presente nella Bibbia, laddove la storia della salvezza è declinata nella narrazione di storie diverse e molteplici, così che il volto del Dio biblico è rivelato nei volti dei tanti personaggi, incarnandosi imperfettamente in essi prima di incarnarsi perfettamente nel Figlio.
Tante storie
Aldo Bodrato, che fin qui abbiamo imparato a conoscere e apprezzare come filosofo, teologo, narratore e poeta, è stato anche un grande lettore, studioso appassionato delle Scritture e, ultimo non certo per importanza, un uomo di fede. Nei suoi saggi e racconti rintracciamo l’inesausta ricerca del divino nelle cose del mondo e nell’umano, sempre dispiegatesi in irriducibile molteplicità. Di questo è esemplare l’intuizione di riscrivere per cinque volte di seguito la parabola del buon samaritano, ogni volta diversa a seconda del narratore che si trova a raccontarla (il discepolo, l’eremita, il teologo, il Cardinale, il beato) e dell’uditorio che, intervenendo, lo sollecita a modificarla («Interpreti della parola» in Storie mancine. Storie di bestie, di uomini e di santi, Diabasis, 2000, pp. 70-74). Analoga infinita reinterpretazione riproduce la vicenda di san Martino, riletta secondo una giustizia distributiva, una retributiva, religiosa, rivoluzionaria e infine celeste, coerentemente conclusa con una Nota critica nella quale si rileva come «Il cielo non annulla le diversità della terra, se ne fa gioco» («Il mantello di san Martino», pp. 81-83).
Divertenti sono poi le vicende sapientemente narrate di molti virtuosi della radicalità evangelica, tra i quali ricordiamo il «severissimo Severo» capo dispensiere alla corte di Costantino, che per sfuggire a ogni tentazione di ricchezza, piacere o comodità passa dalla corte al podere paterno, indi da una grotta montana a cime aride e scoscese, fino al deserto torrido dove rapito in estasi gli viene rivelato il luogo di piaceri a cui è stato destinato quale premio per le sue rinunce. «Fossi matto! […] Ho passato la vita a evitare comodità e lusso, gioie e piaceri, e proprio adesso che sto per concludere la corsa, dovrei lasciarmi attirare dal loro luccichio illusorio?» («Il vero asceta», p. 80), risponde Severo che, per coerenza col rigore assunto, non può cedere proprio a fine corsa.
Triste sorte è invece quella di Eris, nata terza dopo due fratelli maschi di un cadetto del re Sole, «troppo bella per restar zitella e troppo povera per il matrimonio», che il padre su consiglio del canonico di Chartres forza alla vita di santità con uno stratagemma: colloca nella sua stanza uno specchio deformante ed elimina dalla casa tutti gli altri specchi perché lei, vedendosi tanto ripugnante, scelga una vita ritirata. La disgraziata trascorre la sua breve vita piangendo sul suo aspetto sgraziato, mentre la sua bellezza è nel massimo del fulgore. Ma morendo anzitempo per tanto dolore, diventa l’esempio di santità desiderato dal padre e premiato dal Monsignore che per lei prepara il più vero dei memoriali per una giusta beatificazione: «non solo riuscì […] a tenere in nessun conto la sua meravigliosa bellezza, a castigarla nel buio di una stanza e a piangerla come un grande male, ma perfezionò a tal punto l’annientamento del proprio essere da vedere orrore dove c’era splendore e magrezza di morte dove la natura aveva disposto ogni fiorire di forme. Elis ha raggiunto, così, e superato la soglia di ogni perfezione» («Specchio di santità ovvero la stanza delle sante», pp. 93-5).
L’arte sublime dell’ironia
Accesa invettiva contro le reliquie è quindi «Voltaire e il santo resto» che vede il filosofo illuminista obbligato da un fortunale a una sosta presso un’abbazia, dove il curato gli mostra orgoglioso frammenti d’osso e di pelle appartenuti a santi più o meno memorabili. Voltaire ironizza, certo di persuadere la semplicità dell’uomo di fede, mentre questi ne esce vieppiù fortificato: «Me lo sono sempre chiesto come potessero essere autentici i resti di San Nicola, di San Benedetto, di Sant’Egidio, vantati come reliquie dai loro fedeli qua e là per l’Europa. Se volessimo metterli assieme tutti questi resti, di corpi santi potremmo ricostruirne una decina altro che tre. Non è meraviglioso che si possa così moltiplicare il numero dei beati?» (p. 101). E il finale insinua persino il dubbio che il filosofo del sospetto si sia lasciato persuadere dalla retorica lusinghiera del curato: «Facendo i conti non vi pare che saranno, alla fine, assai più numerosi gli uomini strappati all’inferno per un pelo, di quelli beatificati per i propri meriti? Non vi piacerebbe essere nel numero? Non è necessario che rinunciate alle vostre idee e alle comodità della vita. Basta vi priviate dell’unghia di un piede…» (p. 103).
Non si può non godere del tocco ironico di Bodrato, che alleggerisce e sdrammatizza senza mai semplificare. A dispetto del proverbiale «lasciar stare i santi», la narrazione gioca e scherza anche e soprattutto sulle cose serie (i santi), disinteressandosi – laddove si tratta di buona narrazione ‒ alle cose futili (i fanti). L’ironia è arte sublime, presente altresì nella scrittura degli autori biblici e particolarmente efficace per il suo carattere allusivo alla parola che ambisce a raccontare il divino. Ma infine, secondo Bodrato, l’ironia è indubitabilmente apprezzata in cielo: «Il cielo ride di ciò che qui ci scandalizza e questo riso divino cancella disagi e insoddisfazioni, meriti e demeriti, rimpianti e ambizioni. Di cos’altro del resto potrebbero godere in cielo i beati, se non di veder sovvertito l’antico ordine che tanto sangue e sudore è loro costato quaggiù? Il segreto della loro felicità è racchiuso nella partecipazione all’umorismo di Dio che, come sai, ama stupire gli operai della sua vigna donando agli ultimi quanto ha pagato ai primi» (Le opere del giorno, Portalupi, 2004, p. 66).
Maria Nisii
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