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mondo
Tema di questo libro è il crollo dell’Unione Sovietica, ricostruito attraverso innumerevoli testimonianze: lunghi monologhi o spezzoni di colloqui o interviste, per lo più raccolti tra la gente comune. Storia orale ‒ non priva di analogie con il lavoro prodotto dal nostro Nuto Revelli in un ambito territoriale più definito e ristretto ‒ che intreccia il vissuto personale alla ‘grande storia’ e si legge come un romanzo. Anzi, come un dramma polifonico; e come un’immane tragedia. Le due parti del libro (L’apocalisse come consolazione e Il fascino del vuoto) presentano rispettivamente le testimonianze dal 1991 al 2001 e dal 2002 al 2012. Tuttavia i racconti risalgono, tramite le memorie familiari, sino ai tempi dello stalinismo e della guerra, destinati a segnare come gigantesche catastrofi la vicenda dell’URSS. L’utopia/distopia e la guerra Molte, e impressionanti, le narrazioni scaturite dall’esperienza dei gulag. Erano tempi in cui si ripeteva ‒ e campeggiava ‒ uno slogan: «Condurremo con mano di ferro l’umanità intera verso la felicità». Un testimone commenta: «Per noi la pietà era una parola da preti» (p. 167). La delazione – sollecitata – era onnipresente: tra fratelli come tra vicini di casa. Quanto alla guerra, in molti – non in tutti – persiste con un residuo di orgoglio il richiamo alla ‘vittoria patriottica’, che talora alimenta l’ammirazione per Stalin. Una russa emigrata, che fa l’infermiera a Chicago, rischia uno svenimento quando si sente dire dalla cassiera del supermercato: «Noi abbiamo vinto, ma anche voi russi siete stati bravi. Ci avete dato una mano» (p. 364). Ma anche della guerra si ricordano immagini atroci, sofferenze, macelli. Nulla o quasi nulla di eroico. Men che meno il richiamo, che affiora più di una volta, ai «reparti di sbarramento» e ai «battaglioni punitivi» (zagradotrjady e strafnyebatal’oni), formati in parte da detenuti e incaricati di sparare a chi si ritirava o si fermava. Qualcuno riferisce una barzelletta tremenda: «Domanda: come hanno fatto i soldati russi ad arrivare sino a Berlino? Risposta: Si sa, i soldati russi non sono abbastanza coraggiosi da arretrare» (p. 253). Anni Novanta Ma si rivela a suo modo una tragedia anche il crollo improvviso dell’URSS, che la precipita nel capitalismo selvaggio («la Colombia, non l’America o la Germania») e nei conflitti etnici. Da un lato, dunque, la miseria: «Novanta rubli ‒ di stipendio ‒ sono diventati dieci dollari. Impossibile viverci» (p. 21). Schiere di laureati e diplomati, rimasti senza lavoro, diventano manovali o lavapiatti, o disoccupati alcolizzati, mentre le strade si riempiono di gente che cerca di vendere i pochi oggetti di valore, o i mobili di casa. Come Liudmila, licenziata dall’istituto di geofisica, che non ha i soldi per pagare il funerale della madre e ne tiene in casa il cadavere per una settimana, finché accetta un prestito da un “generoso” boss della malavita locale, con spaventose conseguenze. Trionfano le mafie, la corruzione e una violenza efferata. I gangster, insomma, che si sono garantiti la connivenza della polizia e presto si accaparrano anche i voucher dell’azionariato popolare, ceduti in cambio di qualche genere alimentare. Sono loro – in genere i più cinici e spregiudicati esponenti della nomenklatura – a spartirsi l’immensa ricchezza della proprietà pubblica. La spirale dell’odio tribale Dall’altro lato, la violenza etnica. Ne sanno qualcosa l’armena Margherita e l’azero Abul’faz, novelli Romeo e Giulietta, ma anche Olga, una russa nata in Abchazia, o Gafchar, che si occupa dei tagiki immigrati a Mosca. «Un mese prima eravamo tutti sovietici e ora di punto in bianco eravamo abchazi, georgiani, russi». «Vivevamo tutti insieme come una sola famiglia: azeri, russi, armeni, ucraini e tatari […] Lei era armena e il marito azero, ma nessuno ci faceva caso» (pp. 231 e 287). Bastano poche settimane perché tutto cambi. Un russo torna a Vilnius e nessuno gli rivolge più la parola. Una donna armena che deve partorire a Baku non trova più un solo taxista disponibile a portarla in ospedale. Si rincorrono le notizie di stragi e saccheggi. «Un ragazzo armeno è stato ucciso, una ragazza tagika è stata sgozzata… Hanno accoltellato un azero» (p. 300). I matrimoni misti diventano tradimenti punibili con la morte. Si assiste all’esodo precipitoso delle minoranze: vendono per quasi nulla la casa in cui abitavano da decenni, partono con una valigia. E se non hanno parenti disposti ad ospitarli, a Mosca vivono di stenti nelle strade e nelle stazioni. Vengono dal sud, li chiamano «culi neri». Sono sospettati di terrorismo e sottoposti ai controlli della polizia. I cartelli sono eloquenti: «Affittasi appartamento a famiglie ortodosse russe». Orfani di una fede e di una potenza Nessuno sembra ritenere proponibile o praticabile una qualsivoglia riedizione del comunismo. Il che non significa che manchino i nostalgici. Qualcuno si domanda se la mediocre tranquillità degli anni Settanta (il «comunismo vegetariano», come veniva scherzosamente definito) non fosse preferibile alla competizione spietata che è seguita. In altri, prevale il rimpianto dell’ideale perduto: «Il socialismo non è solo i lager e la cortina di ferro, è anche un mondo giusto e luminoso: dividere quel che si ha, aver compassione dei deboli e non pensare solo ad accumulare per se stessi […] È questa la libertà? I piccoli, la gente comune oggigiorno non è più nessuno. Relegata nei bassifondi» (p. 48). «Oggi la gente non ha più una fede, noi invece l’avevamo […] Volevamo costruire il ‘regno di Dio’ sulla terra. Un bel sogno, però irrealizzabile, l’uomo non è ancora pronto» (p. 162). Caso emblematico dell’opposizione al cambiamento è quello del maresciallo Achromeev, ex capo di stato maggiore. Attraverso le sue ultime lettere e le testimonianze degli amici, Aleksievic indaga la crisi di coscienza che lo condusse al suicidio dopo il fallito putsch dell’estate 1991, e nella quale ebbe un peso decisivo – più ancora che la dichiarata fedeltà al socialismo ‒ il dissenso dal pacifismo di Gorbaciov, destinato a suo avviso a minare le fondamenta della potenza sovietica: «Il nostro era un paese militar-industriale, il 70% dell’economia era, direttamente o indirettamente, al servizio delle forze armate. E anche i migliori cervelli… i fisici, i matematici… Tutti lavoravano alla produzione di carri armati e bombardieri. Anche l’ideologia era di tipo militare, Gorbaciov, invece, era un civile fino al midollo […] Quando dichiarava che ‘in una guerra atomica non ci possono essere vincitori’, questo significava un ridimensionamento dell’apparato militar-industriale e degli effettivi delle forze armate. Le nostre eccellenti fabbriche belliche si sarebbero messe a produrre pentole e passaverdure…» (pp. 118 e 125). Uno su mille ce la fa Tra gli anziani è frequente una critica al consumismo cui si abbandonano le giovani generazioni: «I loro musei sono i supermercati. I compleanni li festeggiano nei Mc Donald’s […] Ma una Mercedes che sogno è?» (p. 106). La frattura generazionale è profonda e genera un senso di incomunicabilità. Ai figli non interessa il passato, si ritrovano su un altro pianeta dove il combattimento è incessante. Qualcuno ce la fa, come la manager pubblicitaria Alisa, che raggranella in pochi anni un milione di rubli. «Il capitalismo i miei genitori non l’avevano chiesto. Non c’erano dubbi. Eravamo stati noi, io e quelli come me che non volevano più vivere in una gabbia, a reclamarlo. Persone giovani, forti. Per noi il capitalismo era un’avventura eccitante, interessante, una sfida […] Certo, il destino lo si costruisce con la fortuna, pescando la carta giusta, ma io ho fiuto e so cosa voglio. L’universo non ti dà niente gratis […] Erano comparse insegne sgargianti. Si voleva ogni cosa. Si poteva avere tutto! Potevi diventare ciò che volevi: broker, killer o gay… […] Solzenicyn, Sacharov… No, questi non erano gli eroi del mio romanzo, ma di quello di mia madre. Quelli che leggevano e sognavano di volare, come il gabbiano di Cechov, erano sostituiti da quelli che non leggevano, ma riuscivano a volare» (pp. 319-22). Anche nella ricerca del partner Alisa ha le idee chiare: «Mi piace l’immagine complessiva di un uomo di successo: il suo modo di camminare, di guidare, di parlare, di farti la corte, in lui tutto è diverso. Tutto! Io li scelgo così» (p. 326). Non scherziamo col fuoco Che dire, in conclusione? Nel libro di Svetlana Aleksievic trovano conferma molte osservazioni che era andato formulando su queste pagine Dario Oitana, sino all’articolo La fine di una meravigliosa illusione? (n. 466). È un dato di fatto che si è in presenza non della svolta democratica auspicata, ma di un trauma collettivo, aggravato dalla macelleria sociale che ha consegnato molti territori dell’ex Urss ad autocrati e oligarchi. Ed è altrettanto evidente che la rapida affermazione di una cultura individualista e la totale rimozione del solidarismo e dell’internazionalismo d’impronta marxista hanno spinto a ritrovare un’identità collettiva nei legami atavici della terra e del sangue, fomentando i nazionalismi e i contrasti etnici. Sarebbe saggio, da parte dell’Occidente, non impelagarsi in questo vespaio e nelle derive fuori controllo che possono scaturirne. Meno che mai giocare ad esibire i muscoli o ad alimentare la tensione, per poi trovarsi ostaggi di dementi inebriati di patriottismo. Sappiamo cos’è successo nell’ex Jugoslavia, ove i contendenti erano nani al confronto. E sappiamo che già una volta la scintilla di un conflitto mondiale è scaturita dal gesto di un appassionato irredentista. Giovanni Pagliero Svetlana Aleksievic, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, traduzione di N. Cicognini e S. Rapetti, Bompiani 2013, pp. 512.
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