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società
COME NE PARLIAMO, COME LO FACCIAMO
Ne parliamo male, del sesso: o in linguaggio volgare, o in linguaggio scientifico. Ci manca un linguaggio umano. Questo si forma un poco quando parliamo coi bambini, grazie alla loro innocenza e libertà, o anche nelle coppie più armoniche. Ma il linguaggio sociale sul sesso è fallimentare. |
Oltre che lontano dal senso più umano e buono, è per lo più sprezzante, schifato, e proprio da parte di chi vorrebbe apparire sessualmente più libero e disinvolto. Sarà anche vero che la religione tradizionale è sessuofobica, ma non lo è meno il libertino, o chi vuole apparire tale. La cosa che ti ossessiona non ti fa molto felice. Intanto, ne parla molto chi ne fa poco. La verbosità sessuale sembra un rimedio alla frustrazione. Quando ero giovane io, era usuale che i giovani scapestrati ne parlassero come il pescatore da poco parla e riparla del grande pesce che un giorno riuscì a tirare su. Oggi, e questo non smette di sorprendermi, nella società permissiva è uso diffuso parlarne soprattutto con disprezzo, proprio come ne parlerebbe uno spiritualista nemico della carne, se osasse parlarne. Sempre di più anche le donne ne parlano così. L’organo maschile, nominato col suo nome più volgare, è il termine di riferimento continuo, quasi un tic verbale, per dire una cosa che vale meno di niente. Anche le donne, quando sono scocciate da qualcosa, dicono di avere i testicoli rotti. Pur di insultare il sesso, si dice l’assurdo. Povera nostra umana sessualità, così importante profonda e delicata, attaccata dai puritani come dai licenziosi, ma più di tutti da chi parla senza senso. Direi che stimano il sesso umano più le persone “spirituali” (che non vuol dire affatto “scorporate”) delle persone disattente o sospettose di ogni spiritualità. Direi che si comincia a capirlo meglio invecchiando, quando il desiderio non è meno fisico ma si fa più interiore che esteriore, e per molti è sottoposto alla prova della solitudine.
Capaci di tenerezza
Una cosa che mi ha sempre colpito (fino dall’esame di diritto canonico, nella facoltà di giurisprudenza) è che, per dire la capacità o incapacità sessuale maschile, si parla di «potenza» o «impotenza»: questo è un termine aggressivo, quasi militare. Certo, tante volte è così. Ma dunque è solo questa l’immagine corrente che abbiamo di un’azione che dovrebbe essere tenerezza, se non grande amore, e della quale si dovrebbe semmai essere incapaci quando manca la tenerezza? L’idea aggressiva e giovanilistica, da prestazione sportiva, del sesso maschile esclude i vecchi, uomini e donne, che invece spesso hanno maggiore bisogno e capacità di tenerezza fisica.
Come lo facciamo? Nel senso comune, una volta era un’azione piena di pericoli, morali e fisici, recintata da scrupoli, dilagante nella trasgressione, sublimata da angelicazioni. Oggi è sentito come un atto banale, visto mille volte al cinema, emancipato da ogni regola, ancora divertente ed esaltante, ancora mitizzato come unica felicità della vita, ma per lo più prosaico, senza suggestioni poetiche e simboliche maggiori: non mi pare che il Cantico dei Cantici sia in testa ai best seller erotici di oggi; non mi pare che la società disinibita sia felice e creativa.
Certo è bene che il sesso sia liberato dalle immense sovrastrutture che lo ricoprivano, sotto montagne di moralismi, ipocrisie, giustificazioni strumentali. Era un male a fin di bene: come l’uccidere diventava un bene nella guerra giusta e comandata, così le parti vergognose del corpo (le pudenda) potevano toccarsi solo se autorizzate, benedette e finalizzate a generare figli. Poi la gente, che deve pur vivere, si arrangiava come poteva. Oggi ai più non arriva neppure memoria di quelle regole: tutto è libero. Anzi, ha persino spazio nella scena pubblica il sesso estremo: dominio, violenza e morte. Per essere libero, il sesso ha bisogno di trovare una sua nuova moralità, cioè umanità. La morale non è un legaccio, ma un significato.
La sacralità del corpo
La regola del sesso non è sostanzialmente diversa dalla universale regola d’oro: tratta gli altri come vorresti essere trattato tu da loro; e dall’imperativo categorico kantiano: la persona umana sempre come fine, mai solo come mezzo. Giustizia, rispetto, ammirazione e incanto, inviolabilità del corpo e dell’animo altrui, esclusione di ogni violenza grossolana o sottile, non prendere un piacere che sia sofferenza di altri, venerazione della libertà altrui, nessun inganno e menzogna, trovar piacere nel dare piacere. Sarebbe bene riscoprire una sacralità del sesso umano: non un tremendum divino, che attira e minaccia, ma la sacralità della persona intera, nel suo corpo, nello spazio intimo della sua vita psicologica e spirituale. La stessa sacralità inviolabile della persona, che è l’indispensabile regola della vita civile pacifica e giusta. Direi «sacra» la persona in relazione, non l’atto, che è umano e non divino, e che semmai sarà «santo» in quanto è buono, come ogni cosa buona, tanto più santo quanto più è buono. Si può non disperare, non siamo a livello zero: la maggiore reazione sociale alla violenza su donne e bambini è indice di consapevolezza che sesso liberato e violenza sono l’opposto uno dell’altra. Forse i giovani mitizzano il sesso meno degli ex-giovani più condizionati.
Può accadere, di fatto, che l’intimità non sia sempre un unicum assoluto, ma certo non è moltiplicabile fino alla casualità. Si sa che questo avviene più nel mondo delle immagini – gli spettacoli, i personaggi, la chiacchiera – che non nella vita reale delle persone. Come per la violenza armata: ce n'è di più nei film e nella tv che nella vita reale, pure già troppa. La cultura dominante è peggiore della vita vissuta. Eppure, le immagini di sé che una società produce plasmano il nostro senso della vita, il modo come ci vediamo, come presentiamo ai giovani le relazioni umane: più come oggetti in serie o come persone uniche? La giustizia verso tutti, verso il terzo anonimo, nella società, è una regola di parità. L’amore e l’amicizia più stretta hanno come regola la sovrabbondanza generosa, diseguale, ben più che la parità calcolata. Come diceva quel saggio mistico sufi: non si può avere troppi amici, perché non si può essere fedeli a tutti.
Un miracolo molto terreno
Gli uomini hanno (quasi) tutti quella fissa di entrare nelle donne. I più gentili chiedono permesso, i più rozzi ci vanno di brutto. Sarà che vengono da lì e non possono dimenticarlo. Se sono gentili, le donne hanno piacere di accoglierli, e ancora di più (penso) di sentirselo chiedere. Se sono violenti rendono mostruosa una cosa bella. Quando, con l’età, non hanno più il vigore sufficiente, (quasi) tutti si vergognano e si rattristano, come se non fossero più uomini. Non sanno che le carezze e la vicinanza sono pure una grande bellezza e piacere. I più gentili sanno che l’unione dei corpi unisce anche i cuori, perciò non fanno collezione di donne senza cercare e impegnarsi nell’amore personale, che pervade tutti i momenti e tutti gli aspetti della vita, e tende, per quanto può, a durare per sempre nella reciprocità (come scrivono i ragazzi sui muri: 4ever).
La sessualità umana è più che biologica: è una invocazione e un’estasi fisico-psico-spirituale, una ricerca e un desiderio di Dio, che è l’Altro nel cuore di ogni alterità. C’è qui un miracolo molto terreno: certamente non è che il corpo e il cuore altrui siano semplici trampolini per (illudersi di) salire a Dio, né che Dio si sostituisca alla persona che ami; è che nell’amore concreto Dio è presente, nascosto e inafferrabile come sempre, ma presente nel più umile degli amori. Quando ne abbiamo coscienza, quello è un sacramento. Più che di leggi, l’amore ha bisogno di luci. «La lettura in chiave erotica del Cantico è la più sicura, ma non ha senso se il letto degli amori non è rischiarato da una piccola lampada che rischiari, attraverso quei trasparenti amori, il Nascosto» (Guido Ceronetti, Cantico dei cantici, Adelphi 1975, p. 107, citato da G. Ravasi, Cantico dei cantici, Ed. Paoline 1986, p. 27). Interpretando in questa luce la prima lettera di Giovanni 4,8, Ravasi, nella stessa pagina, arriva a suggerire: «Se esiste l’amore esiste Dio». Ogni tanto, qua e là, l’amore esiste.
Enrico Peyretti
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