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 347 - IL MOTU PROPRIO DEL PAPA

 

LITURGIA: INTIMISMO O PARTECIPAZIONE?

I dati di cronaca sul motu proprio Summorum Pontificum (SP) di Benedetto XVI sono noti: dopo una gestazione lunga un anno, è stato promulgato il 7 luglio ed è entrato in vigore il 14 settembre.

La notizia spopola sui giornali e sui blog: i giornalisti si interrogano sul significato del ritorno del latino (senza accorgersi di quanto in realtà stava veramente accadendo), la gente comune si stupisce (forse chiedendosi, perplessa o incuriosita, se sarebbe cambiato qualcosa nella messa della domenica), il «popolo tradizionalista» esulta (auspicando che SP sia solo un primo passo per il ritorno alla gloriosa tradizione) e non manca l’avallo di teologi (dogmatici, sistematici, biblisti…). In questo fervore di parole, arrivano anche gli interventi di alcuni liturgisti e di alcuni (pochi) vescovi. Dopo qualche mese di quiete, a metà novembre, il motu proprio torna all’onore delle prime pagine: il segretario della Congregazione vaticana per il culto e la disciplina dei sacramenti, Albert Malcolm Ranjith, denuncia un clima di «disobbedienza» verso il papa da parte dei vescovi che si sono espressi riguardo all'applicazione di SP nelle proprie diocesi e inizia a essere ventilata l’ipotesi di una Istruzione sull’uso del motu proprio come strenna natalizia a fugare punti oscuri e divergenze di opinioni.

Non è semplice parlare di liturgia sulle pagine de il foglio: molti di noi hanno conosciuto la celebrazione pre-conciliare e il fascino impetuoso dell’introduzione del nuovo rito; molti hanno scelto di celebrare all’interno di comunità scevre da sovrastrutture rituali; molti sono lontani dalle messe cattoliche da anni.

 

Alcune difficoltà

Dopo questa premessa, è lecito iniziare a chiedersi: perché tutto questo interesse riguardo a una lettera apostolica del papa? L’argomento della questione sembra piuttosto semplice: SP concede l’uso del Messale Romano pre-conciliare, nell’edizione tipica del 1962 promulgata da Giovanni XXIII, per la celebrazione eucaristica. Si tratta di un uso definito straordinario che si affianca a quello ordinario del Messale Romano detto del 1970, frutto della riforma conciliare e promulgato da Paolo VI.

Gli effetti non sono, tuttavia, così semplici.

Per iniziare, si deve considerare che per la prima volta nella storia della chiesa si assiste alla presenza contemporanea di due usi dell’unico rito romano. Alcuni commentatori hanno minimizzato la portata di questo gesto, argomentando che il Messale del 1962 non è mai stato abrogato e dimenticando, al contempo, che Giovanni XXIII lo aveva sì promulgato, ma lo aveva anche dichiarato provvisorio, in vista delle riforme che il Concilio Vaticano in corso avrebbe proposto alla Chiesa. Come se questo non fosse sufficiente la Costituzione apostolica di Paolo VI, posta in apertura del Messale del 1970, spiega l’evoluzione del percorso di riforma e stabilisce che «quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere in contrario nelle Costituzioni e negli Ordinamenti Apostolici dei Nostri Predecessori e in altre disposizioni anche degne di particolare menzione e deroga». In seguito, l’Indulto del 1984 di Giovanni Paolo II permetterà la ripresa dell’uso del Messale del 1962 ma come forma eccezionale e su concessione del vescovo.

A questo proposito, il ruolo dell’episcopato nella vicenda è uno degli aspetti più problematici della questione. Se SP stabilisce che non è più necessario il permesso dei vescovi per adoperare il Messale del 1962, la Lettera ai vescovi (LV) che accompagna il motu proprio ricorda l’autorità del vescovo sulla liturgia della propria diocesi stabilita dal Concilio (si vedano almeno Sacrosanctum Concilium n. 22, Lumen Gentium nn. 22-27). Vista la difficoltà a pensare che il papa voglia stravolgere il ruolo dell’episcopato, trasformando il «moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella chiesa particolare a lui affidata» (Christus Dominus n. 15) a semplice osservatore impotente, si deve cercare un’interpretazione di più ampio respiro che pensiamo di poter ravvisare in questo passaggio di SP: «[il parroco] provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa» (n. 5). In quest’ottica, al centro vi è la pastorale ordinaria della diocesi, più importante della rivendicazione di diritti particolari, e appaiono dunque forzate e pretestuose le interpretazioni di chi addita come «disubbidienti» coloro che sono stati in ascolto delle necessità della diocesi, in vista di una pastorale armoniosa e feconda.

Un terzo punto riguarda l’applicazione frettolosa e impulsiva che taluni presbiteri stanno mettendo in atto dopo l’entrata in vigore del motu proprio. SP non prevede, infatti, che ovunque e chiunque possa celebrare con il Messale del 1962 ma che possa essere usato in quelle «parrocchie in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica» (n. 5). Un documento redatto da liturgisti della comunità monastica di Camaldoli, dell’Istituto di liturgia pastorale dell’abbazia di santa Giustina di Padova e dell’Associazione professori e cultori di liturgia, suggerisce come siano allora evidenti quali siano i contesti in cui l’uso è escluso. Vi sono motivi oggettivi: gruppi numerosi ma occasionali (frutto magari della curiosità o di una semplice raccolta di firme), singoli richiedenti, gruppi appartenenti a una parrocchia diversa da quella in cui chiedono la celebrazione della messa. E vi sono anche dei motivi soggettivi: sono esclusi coloro che non hanno la formazione liturgica del rito precedente e la comprensione della lingua latina adeguate a partecipare attivamente. SP vuole, infatti, andare incontro a coloro che dopo la riforma «rimanevano fortemente legati all’uso del rito romano che, fin dall’infanzia, era per loro diventato familiare» (cfr. LV), e non dunque a coloro –presbiteri e laici – che hanno vissuto un’esperienza celebrativa a partire dalla riforma liturgica e che si avvicinerebbero oggi al rito precedente.

 

Sindrome dell’assedio

Un rito straordinario, dunque. Rivolto a dei destinatari ben precisi, all’interno di una armonica pastorale ordinaria. Eppure è difficile coniugare quanto abbiamo detto finora con il clima di rivalsa portato avanti da alcuni gruppi tradizionalisti e con l’adesione appassionata di alcuni presbiteri. Non si può non trovarlo dissonante con le dichiarazioni con cui Benedetto XVI ribadisce l’unicità della lex credendi della chiesa e la sollecitudine a voler superare le divisioni all’interno del cattolicesimo.

Fermarsi a considerare le motivazioni di queste divisioni può aiutarci ad aggiungere un tassello: la decisione di rifiutare le decisioni di un concilio e le conseguenze successive, rifugiandosi nella Tradizione. Ma cosa è la tradizione? Forse che il Concilio Vaticano II non è già parte della tradizione e della storia della chiesa? Forse che si può scegliere la storia che piace e buttar via quella che non piace? La fatica dell’accoglienza e della convivenza è diffusa all’interno della chiesa, ma è il peso da portare per non cadere nel personalismo effimero e superficiale.

Guardare alla storia della chiesa (soffermandosi magari proprio sulla storia della liturgia) permette di scoprire quanto articolata sia la cosiddetta tradizione e quanto le decisioni prese siano state legate alle vicende vissute e alla necessità del tempo. E quanto cristallizzarle sia, in fin dei conti, un tradimento della loro natura più profonda.

Il Concilio ha cambiato la liturgia recuperando quanto della tradizione era essenziale (anche quello che era stato perduto nel tempo) e seguendo l’ispirazione di quanto il nostro tempo necessitasse percorsi diversi da quelli vissuti fino a quel momento, distanziandosi da esperienze estetiche e intimistiche che pure hanno dato i loro frutti in passato e dando un rilievo maggiore alla condivisione comunitaria. Il Messale del 1970 e le sue successive integrazioni propongono una ritualità ricca di Parola di Dio (i lezionari ci permettono di leggere il 14% dell’Antico Testamento e il 71% del Nuovo Testamento, a fronte dell’1% e del 14% del Messale precedente), strutturata da codici comunicativi capaci di coinvolgere con l’immediatezza dei gesti e di interessare nella profondità delle espressioni, radicata sulla celebrazione comune di tutto il popolo di Dio.

Questa è stata la risposta conciliare a chi attendeva una liturgia incarnata nella storia e nella cultura del proprio tempo. Alcuni potranno pensare che il Messale è comunque uno strumento superato e statico, altri possono interessarsi a quello che sarà la liturgia della chiesa fra molti anni, ma non possiamo rimanere indifferenti a un tentativo di ritornare al passato per rimediare alle difficoltà di imparare la lingua del presente. I difetti delle celebrazioni eucaristiche contemporanee non mancano: estemporaneità, verbosità, sciatteria, frettolosità, creatività esasperata... Ma la risposta opportuna non è ritornare al passato. Forse proprio la discussione nata intorno alla promulgazione del motu proprio potrà essere l’occasione per trovare cura e sollecitudine rinnovate rispetto alle celebrazioni eucaristiche domenicali, come molti liturgisti hanno auspicato.

Sicuramente il mondo contemporaneo non è un luogo semplice dove vivere l’annuncio e forse lo sanno bene quelle comunità che hanno la tentazione di serrare le fila e fare «come sempre si è fatto», quei giovani preti che si sentono attratti dalle vecchie tradizioni e dalla pietà popolare, quei vescovi che inseguono soluzioni pastorali facili e indefinite.

Il rischio è cadere nel meccanismo delle «profezie che si auto-avverano», vale a dire che tanto più avrò timore di una situazione tanto più metterò in atto dei comportamenti che inevitabilmente porteranno al risultato che temo. Complicato? Semplifichiamo con un esempio: una moglie tormenta il marito con la sua gelosia, insinuando che egli abbia una relazione con un’altra donna. Il risultato sarà che il marito cercherà davvero riposo dalla gelosia della moglie nelle braccia di un’amante. Ebbene, la Chiesa rischia oggi di mettere in atto la sua profezia: se decide di proporre posizioni arroccate e conservatrici per fuggire da un mondo che forse considera incapace di capirla e accoglierla, inevitabilmente metterà in atto le condizioni affinché il mondo non comprenda il suo messaggio e decida, anzi, di non ascoltarlo più.

Forse sarebbe tempo di ascoltarlo. E di celebrare la fede e la gioia dell’essere cristiani con le donne e gli uomini del nostro tempo.

Simona Borello

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