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Su 945 parlamentari eletti nel 2018, ben 283 (il 30% per cento) hanno cambiato partito nei quattro anni successivi. E nella legislatura quel parlamento non ha saputo esprimere al suo interno un presidente del consiglio (entrambi i capi di governo che si sono succeduti non si erano presentati alle elezioni), né indicare un nuovo presidente della repubblica: ha ‘pregato’ quello uscente di rimanere, nonostante avesse detto chiaro e tondo di non volerne sapere.

Ma c’è di più. In presenza di una pessima legge elettorale - che apriva la strada a un parlamento dei ‘nominati’, senza consentire all’elettore di scegliere le persone, e risultava tanto più inadeguata a sèguito del taglio dei parlamentari, al punto che ai tempi del referendum tutti si impegnavano a modificarla – non si è nemmeno avviato l’iter per un suo cambiamento. E da ultimo, la campagna elettorale è iniziata con i risibili ‘colpi di teatro’ di piccoli leader, guidati dai sondaggi nel marketing dell’ennesimo partitino personale.

Date queste premesse, difficile stupirsi dell’astensionismo. Quanto poi al dibattito in corso – scriviamo a fine agosto ‒ vede prevalere la demagogia e scarseggiare l’analisi e le proposte concrete. Il centrodestra appare come sempre capace di lanciare messaggi chiari, semplicistici e divisivi (stop immigrazione e flat tax) e di passare sotto silenzio le divisioni interne: quasi ci si dimentica che in questi due anni Meloni era all’opposizione e Lega e Forza Italia nel governo. Sorprende maggiormente che nel confronto abbiano un peso secondario tematiche come la sanità pubblica o la pace in Ucraina. Eppure la pandemia e questa guerra sono tragedie epocali, destinate a segnare drammaticamente il nostro futuro. Certo, sono temi che esigono uno sforzo di riflessione e non si risolvono con le battute dei talk show: ma è sconcertante la superficialità con cui vengono trattati nella discussione preelettorale. E lo stesso può dirsi dell’altra grave emergenza dei nostri tempi, forse la maggiore di tutte, quella climatica e ambientale.

Una novità rilevante è che la coalizione di centrodestra ha fatto propria all’unanimità la proposta di una riforma istituzionale basata sul presidenzialismo, impegnandosi a portarla all’approvazione – anche in modo unilaterale – in caso di vittoria. Ciò ha destato motivate preoccupazioni: il rischio di uno stravolgimento della carta costituzionale è dietro l’angolo. Da più parti sono venuti appelli a una larga alleanza in difesa della Costituzione, resa impossibile dalla rottura tra PD e M5S e dai protagonismi del ‘centro’.

Ma il centrosinistra, purtroppo, non ha concordato un progetto di riforma elettorale e continua a diffidare del proporzionale con ‘preferenze’: con la conseguenza che anche qui si limita a giocare in difesa. E tanto più in difesa in quanto il Rosatellum consente alla coalizione vincente di ottenere tra il 60 e il 65% dei seggi con il 45% dei voti, avvicinandosi alla maggioranza dei due terzi, ovvero alla possibilità di riscrivere la Costituzione senza referendum.

Guardando al lungo periodo, una tendenza è evidente: con la prospettiva di un governo trainato dalla destra-destra abilitato a cambiare le istituzioni giungerebbe al pieno compimento la parabola iniziata trent’anni fa con la crisi della prima Repubblica. Con il prevedibile corollario di un ulteriore smantellamento dello stato sociale.E con una straordinaria necessità – nel prossimo futuro - di ricostruire le basi di una credibile alternativa: attraverso un rinnovato impegno civile, che restituisca ragioni di speranza dove oggi prevalgono la paura, i risentimenti e la frustrazione.


 
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