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 493 - GUERRA E DIVISIONE DELLA SOCIETÀ IN CLASSI

 

Un mondo senza guerra

 

Da quando, diecimila anni fa, alcuni gruppi di sapiens hanno cominciato a coltivare le piante invece di raccoglierle e ad allevare gli animali invece di cacciarli, la guerra è diventata il principale fattore produttivo. Agricoltura e allevamento hanno bisogno di terra, acqua, schiavi e servi da impiegare nel duro lavoro dei campi molto meno gratificante ed esaltante della caccia: la guerra è il metodo per procurarseli.

I grandi imperi si basavano su un possente esercito per conquistare sempre nuove terre facendo schiave le loro popolazioni; una parte di queste terre, di questi uomini e di queste donne veniva poi distribuita ai militari stessi come bottino di guerra. Anche in una società industriale, la guerra è rimasta fondamentale per lo sviluppo. Spesso le materie prime si trovavano in paesi remoti che occorreva colonizzare e che potevano essere sfruttati anche come mercati di sbocco per la sempre più abbondante produzione dell’industria. Non è un caso che i paesi più sviluppati siano anche stati colonizzatori, ed il tentativo di strappare le colonie più redditizie dalle mani dalle prime potenze industriali che le avevano già occupate sia stata la causa principale delle due guerre mondiali del 900.

Insieme alla guerra, la rivoluzione agricola ha causato anche la divisione della società in classi. La stratificazione della società sorge ovunque, anche in terre che non hanno mai avuto rapporti con altre società agricole perché risponde perfettamente, come la guerra, alle necessità di un’economia basata sulla terra. Per governare la società e conservare le conoscenze necessarie basta un piccolo gruppo di eletti, generalmente uomini, mentre una grande massa di schiavi, servi, plebei e donne deve dedicarsi necessariamente al duro lavoro dei campi ed alle necessità primarie della vita. Anche qui lo schema si ripete in un’economia industriale: i proprietari del capitale e dei mezzi di produzione hanno bisogno di una grande massa di operai per il duro lavoro in fabbrica. Ci sono però delle differenze importanti: è meglio per un sistema industriale che i lavoratori siano liberi, sono più efficienti e responsabili e devono essere loro, col loro lavoro a mantenere la famiglia invece di essere a carico del padrone. Inoltre il lavoro industriale, con l’uso di macchine sempre più complicate, richiede attenzione ed una certa istruzione che per schiavi o servi non è necessaria. Infine durante il 900 ci si accorge che una migliore distribuzione del reddito facilita la vendita delle merci che, sempre più numerose, escono dalle fabbriche sempre più meccanizzate.

In questo lungo periodo storico le necessità economiche hanno concorso a formare la mentalità e la cultura sia individuale che collettiva. La divisione in classi è stata ritenuta naturale se non addirittura sacralizzata come nell’induismo, la difesa della “Patria” è stata celebrata come un sacro dovere, una prova di coraggio e di dedizione, una fonte di onore e gloria.

 

Una grande mutazione

Negli ultimi cinquanta anni però questo assetto millenario ha cominciato a modificarsi sempre più velocemente e profondamente. L’informatica e la tecnologia digitale, unite a mezzi di trasporto sempre più veloci, capaci ed a basso costo hanno creato in pochi lustri un mercato globale sempre più connesso ed interdipendente. Capitali e merci, anche di poco valore, hanno cominciato a spostarsi da un capo all’altro del mondo in quantità sempre crescente. Il valore della produzione mondiale è balzato a livelli mai raggiunti prima. Questo fenomeno è stato chiamato globalizzazione. Le conseguenze di questa frenesia commerciale sono state profonde ed hanno sconvolto il vecchio assetto economico e politico del mondo. Paesi chiusi, poveri ed emarginati si sono improvvisamente trovati al centro di questo vortice ed hanno iniziato una corsa furiosa verso lo sviluppo e il XXI secolo, mentre vecchie potenze iniziano un lento declino. Con grande velocità, quello che era ritenuto da tutti di fondamentale importanza per la vita di una società perde di valore. La guerra e la divisione in classi da base della società si sono trasformate in un ostacolo per il suo sviluppo. In particolare la prima, che interrompe il commercio mondiale, porta gli Stati alla bancarotta e scatena l’inflazione, è ora il principale freno allo sviluppo. Solo i produttori di armi e chi le distribuisce (si potrebbe anche dire le spaccia) continuano ad arricchirsi, mentre il resto della società entra in crisi, come la guerra in Ucraina sta ampiamente dimostrando. Anche la divisione in classi ha perso la sua base economica. C’è sempre meno necessità di lavoro manuale e dequalificato. Tecnici sostituiscono contadini ed operai in fabbriche e campi completamente meccanizzati ed informatizzati. La società informatica ha bisogno di persone istruite, flessibili, capaci di adattarsi velocemente ai cambiamenti tecnologici. Solo una società culturalmente sviluppata può continuare a svilupparsi. Questi stravolgimenti positivi di abitudini secolari sono stati però così veloci e profondi da spiazzare completamente la maggioranza dell’umanità, compresa anche gran parte della cultura, dell’informazione e soprattutto della politica. In troppi danno ancora credito alla realpolitik basata sulla forza militare e troppo pochi hanno il coraggio e la lungimiranza di abbandonare completamente ideologie superate divenute oggi potenzialmente catastrofiche quali: imperialismo, politica di potenza e nazionalismo. Questa mancanza di visione può portare alla disgregazione della società globale in potentati in lotta tra loro, mentre i paesi tornano ad impoverirsi e l’ambiente si degrada sempre più. Possiamo contemplare così l’abisso in cui si cadrà se prevarranno stoltezza e noncuranza. Non è questo però il destino che attende ineluttabilmente l’umanità, perché l’alternativa oggi esiste, ed è anche ragionevole e percorribile: un accordo globale per regolare i rapporti tra i popoli e contemperarne gli interessi contrastanti nell’interesse superiore dell’umanità.

Dopo millenni di dominio incontrastato del più forte, potrebbe infine realizzarsi l’utopia affermata con grande lungimiranza dalla nostra Costituzione all’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come metodo di risoluzione delle controversie internazionali…». Dove al posto di «Italia» potremmo scrivere «Umanità».

Dopo gli orrori, i massacri indiscriminati, il terrore, i dolori e le distruzioni provocate dalle due guerre mondiali del secolo scorso, la guerra ha già perso la sua aura di onore e gloria, la condanna morale a suo carico è senza appello. Ora sta perdendo anche la sua ragion d’essere come strumento di sviluppo economico. L’umanità deve solo accorgersene, prenderne atto e agire di conseguenza.

Angelo Papuzza

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