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 494 - Il gas, l’Ue, il negazionismo, la flat tax, la follia della guerra

 

UN GROVIGLIO DI CONTRADDIZIONI

 

Uno spettro si aggira per L’Europa. Non è quello del comunismo evocato dal Marx nel famoso manifesto del 1848, né quello del bolscevismo giudaico, recentemente rivisitato dallo storico Paul Hanebrink, in un volume dallo stesso titolo.

È semplicemente, e più prosaicamente, il razionamento energetico. Un provvedimento di guerra richiesto da un’economia sconvolta a tal punto che non basta più il prezzo (altissimo) ad adeguare l’offerta alla domanda, ma il bene manca in termini fisici, cioè non ce n’è abbastanza per tutti. «È finito il tempo dell’abbondanza e della spensieratezza», ha chiosato E. Macron, subissato di critiche. Aveva semplicemente detto la verità.

E qui ci scontriamo con la prima contraddizione. Putin sta vincendo la guerra e noi lo stiamo aiutando, acquistando dalla Russia molto meno gas di prima, ma pagandolo 10 volte tanto. Fondi che l’esercito russo utilizza per acquistare droni iraniani con cui colpire abitazioni civili e soprattutto fabbriche e centrali in modo da rendere la vita impossibile agli ucraini. Questi chiedono allora giustamente sistemi di difesa antidroni. Non tutte le armi sono offensive, alcune servono a ridurre il numero dei morti e dei feriti. E noi occidentali gliele forniamo, con ottimi affari per chi le produce, utilizzando nei suoi stabilimenti forse gas russo. Il cerchio si chiude. Putin, impantanato sul terreno, costretto a buttare sempre più uomini al massacro, come in ogni Blitzkrieg che si rispetti (inizia per durare pochi giorni e poi rischia di durare anni), vince la guerra economica destabilizzando il nostro sistema produttivo e sociale, manovrando le fonti di energia, provocando inflazione e conseguente forte disagio in tutta la società.

 

Il prevalere della legislazione nazionale

Occorrerebbe un’Europa coesa e rapida nelle decisioni. Invece è vittima delle sue regole: prima di tutte, quella della unanimità. E tacendo del fatto che spesso le si rimprovera di non fare quello che non può fare, è sempre più soggetta a una deriva intergovernativa anziché avviarsi verso la federazione. Soggetta cioè ad arroganti e fumosi interessi nazionali, nell’illusione che, nel fare ciascuno per sé, ci siano chissà quali vantaggi. E qui incontriamo il nuovo assetto del governo italiano, e il nuovo clima politico generale che lo circonda. La proposta che la legislazione nazionale prevalga, almeno in certi casi, su quella europea. Sarebbe la fine dell’Unione. I fondatori previdero saggiamente regolamenti e direttive europee. I primi entrano direttamente in vigore nei vari stati, senza bisogno di altri passaggi (una innovazione rivoluzionaria rispetto al principio della sovranità statale, superiorem non recognoscens), le seconde devono essere tradotte in norme interne dai Parlamenti, ma nel caso questi non rispettino i termini, lo Stato membro incorre in procedure d’infrazione con pesanti conseguenze economiche. Se saltano queste priorità finisce l’Europa. Altra contraddizione non da poco.

Una terza contraddizione, gravissima, è quella tra ambiente e guerra. Nel tempo in cui sarebbe necessaria un’alleanza di tutti i popoli del mondo per controllare e ridurre il riscaldamento del clima, la trovata demenziale è aprire fronti di guerra. E non soltanto dove le guerre sono da tempo endemiche e incontrollabili, ma nel cuore dell’Europa, addirittura tra popoli fratelli di lingua, storia e cultura. Nelle dichiarazioni prevalenti, al di là di un omaggio formale alla gravità della situazione e all’affermazione di principio che nulla cambia sull’urgenza di affrontare i temi ambientali, emerge, chiara, una volontà di rinvio a tempi migliori, se non addirittura uno strisciante negazionismo, evidente nei primi passi del nuovo governo italiano.

 

Le mani nelle tasche dello Stato

Altrettanto preoccupante, e ancora più urgente, si delinea il deterioramento dei rapporti tra cittadini e Stato, sia sotto l’aspetto della partecipazione politica che sotto quello delle obbligazioni fiscali. Con varianti limitate i problemi riguardano molti paesi dell’Unione Europea ma più marcatamente l’Italia. «Lo Stato non deve mettere le mani nelle tasche degli italiani» è l’antico motto qualunquista di Silvio Berlusconi, nel quale lo Stato appare come un ladro che impedisce al cittadino di impiegare meglio la sua ricchezza. Dopo la pioggia indiscriminata di bonus e ristori senza guardar tanto per il sottile i destinatari, e la loro capacità contributiva, sarebbe forse il caso di rovesciare l’affermazione e chiederci quando gli italiani (o almeno una gran parte di essi) la smetteranno di mettere le mani nelle tasche dello Stato. Cioè dei concittadini che pagano le tasse, permettendo così l’erogazione di servizi per tutti. Invece da un lato si cavalca incoscientemente l’“euforia da debito” (copyright Carlo Cottarelli) e, dall’altra, proprio in un frangente che esigerebbe un relativo aumento del carico fiscale, nel rispetto della progressività sancita dalla Costituzione, si favoleggia di demenziali tasse piatte. Farebbero aumentare gli investimenti e i posti di lavoro e la nuova ricchezza “gocciolerebbe” anche ai ceti più poveri (copyright di alcuni economisti americani come Milton Friedman e Arthur Laffer). Nella realtà dei fatti, dai tempi di Ronald Reagan in poi, le flat tax hanno soltanto generato aumenti incontrollati del debito e riduzioni permanenti del gettito fiscale e dei servizi pubblici.

Altri problemi pone l’ondata inflazionistica, dopo che per oltre 15 anni avevamo goduto di pezzi stabili. L’inflazione è la più subdola e la più iniqua  delle imposte, ma va pagata e se vogliamo che non la paghi chi sta peggio, occorre dosare gli aiuti alle famiglie e alle imprese in modo che siano quanto meno condizionati alla realizzazione di minori consumi, come avviene in Germania. Finora invece bonus più o meno a tutti (helicopter money, denaro che scende dal cielo, stipendio di stato che arriva sul conto corrente), coperti (si fa per dire) con debito, alla faccia di chi verrà dopo.

 

«Non c’è che la vita dei vivi»

Resta, incombente e angosciante, la più grande delle contraddizioni, bellum alienum a ratione. Quante parole ci eravamo illusi di non sentire mai più. La terribile logica di guerra in cui una parte vuole annichilire l’altra, a colpi di distruzione di vite e di beni. Per avere una posizione di forza quando si comincerà a trattare, ponendo le basi per non trattare mai. Si vive tra esili speranze e grandi delusioni. La diplomazia vaticana «opera con coraggio, anche a costo di scontentare qualcuno» (Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire a Radio1, 30.10.2022), punta a smuovere la Cina, si scorge qualche spiraglio. Emanuel Macron si muove bene, partecipando all’incontro della Comunità di S.Egidio e ricordandoci, tra l’altro, che la guerra di Putin non è la guerra del popolo russo. Un milione di persone sono fuggite nelle settimane scorse verso Finlandia e Georgia, almeno in parte, per salvare la pelle e non rispondere alla chiamata alle armi. Gli Stati dell’Unione Europea dovrebbero accoglierli, come fece, negli anni ’60, il Canada con le centinaia di migliaia di giovani statunitensi che non volevano combattere in VietNam. Anche dal Cremlino giunge qualche apprezzamento per l’opera del Papa. Ma il giorno dopo tutto torna in alto mare. E la Russia coglie l’occasione dell’attacco alla sua flotta del Mar Nero, per tentare di coinvolgere la Gran Bretagna e per sospendere l’accordo sulla libera circolazione delle navi cariche di grano. Altra manovra della guerra economica, che destabilizza ulteriormente l’Africa e aumenta i flussi di migranti verso l’Europa.

Contro la retorica della gloria e dell’onore in guerra, Javier Cercas ne Il sovrano delle ombre ci ricorda che «non c’è altra vita che la vita dei vivi… che la vita precaria della memoria non è vita immortale, ma solo una leggenda effimera, un vuoto succedaneo della vita, e che solo la morte è sicura». In quella notte di febbraio sono bruciate di colpo molte speranze e molte illusioni che avevano animato una generazione come la mia che ha avuto l’incomparabile fortuna di vivere in pace. E mentre sullo sfondo aleggia lo spettro di uno scontro globale con armi nucleari, si registrano dichiarazioni come quella di Dmitrij Medvedev, stretto collaboratore di Putin, nonché “super falco del Cremlino”: «nello scontro nucleare moriremo tutti (mad, mutua distruzione assicurata), ma noi andremo in paradiso perché la nostra è la giusta battaglia». Forse glielo avrà garantito il patriarca Kirill, ma certo l’umanità si merita prospettive meno demenziali, in inglese mad, appunto.

Pier Luigi Quaregna

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