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politica
494 - Parole… Parole? Parole! |
Le scelte del «signor Presidente» Meloni
Subisco il fascino delle parole, della lingua, del linguaggio. Leggo libri e articoli. Una vita fa mi sono perfino laureata in linguistica. Ed è proprio della forza delle parole che Giorgia Meloni (e i suoi ghost writer) sanno usare così bene che voglio parlare. |
Non posso, così, accettare la posizione di chi dice che non sono le parole a contare ma contano i fatti. Le parole sono delicate e pericolose, ma sicuramente non sono innocue o ininfluenti. Le parole raccontano la storia, descrivono il presente, disegnano immaginari. Lo sappiamo tutti, in verità, anche coloro che spesso commentano le questioni di lingua come superflue rispetto ai “veri” problemi: quanti episodi della nostra vita personale sono influenzati dalla parola “sbagliata” che qualcuno ci ha rivolto, dal modo in cui ci ha denominati, dalla definizione che ci hanno dato sul posto di lavoro? Oltre a questo, trovo sempre fastidioso il “benaltrismo”, come se ci fosse sempre qualcosa di più importante, più definitivo, più cruciale da affrontare: si può benissimo riflettere su più argomenti contemporaneamente; si può criticare una cosa e, insieme, anche un'altra; si possono osteggiare le scelte linguistiche e quelle fiscali economiche giuridiche politiche nello stesso tempo. In questa sede non commenteremo puntualmente i primi atti del governo, pur non potendo negare che destano preoccupazione e allerta per il modello di stato che stanno delineando, ma daremo piuttosto delle chiavi di lettura sul tipo di impostazione autoritario, autoreferenziale, manipolatorio che è possibile dedurre dalle prime prese di parola comunicative della Presidente del Consiglio.
«Io sono Giorgia»
L'insediamento di Giorgia Meloni come Presidente del Consiglio è un esempio mirabile di una ricca serie di problematiche da affrontare e, nell'opinione di chi scrive, l'annuncio di un grave danno a tutto campo. Uno dei suoi slogan più celebri, al punto di essere declinato anche in salsa castigliana, è stato: «Io sono Giorgia: sono una donna, sono una madre, sono cristiana», semplice e incisivo al punto da infiammare e coinvolgere i suoi sostenitori politici. Ecco, questo ci permette di mettere in luce la sua capacità di dire una cosa e farne un'altra: così come si dice cristiana e non è sposata, così come si proclama donna e si fa appellare al maschile, allo stesso tempo afferma che il suo governo contrasterà l'evasione e subito dopo vediamo i partiti che la sostengono proporre l'innalzamento della quota di contante che può circolare e... potremmo continuare a fare questo esercizio di stile con quanto ha proposto nelle Dichiarazioni programmatiche del 25 ottobre (reperibili qui: https://www.governo.it/it/articolo/le-dichiarazioni-programmatiche-del-governo-meloni/20770). Ci si potrebbe limitare a dire che non si occuperà dell'Italia, come ha affermato, ma di alcuni italiani, quelli che si considerano più italiani degli altri.
E proprio sulla definizione di Italia si può continuare: è molto rilevante il modo in cui vi ha fatto riferimento. A parte un paio di occasioni in cui è denominata «Paese» (di cui una in una frase fatta “l'Italia non è un Paese...”), l'Italia è chiamata «Nazione» per 18 volte. Si potrebbe trovare rassicurante la presenza di «Patria» solo una volta, in un passaggio riferito alle forze armate, area semantica nella quale l'uso di questo termine può essere più usuale, distaccandosi dal motto fascista «Dio, Patria, Famiglia», eppure, come qualche osservatore ha messo in luce, «Nazione» non è certo un termine neutro. La Treccani la definisce «il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza» e, così, Meloni con questa parola ci ricorda cosa pensa dell'Italia, chi considera “veri cittadini”, quale sia la posizione su migranti e migrazione, senza dire quasi nessuna parola su questi argomenti.
Il nome dei ministeri
Non ci si può soffermare su tutto il testo delle Dichiarazioni programmatiche e sui vari interventi da Presidente del Consiglio, ma possiamo ancora intrattenerci su tre questioni piuttosto rivelatrici. La prima riguarda la denominazione dei ministeri che, al pari della scelta di due personaggi non collocabili tra i moderati come Presidenti di Senato e Camera, vuole affermare con decisione la presa del potere: le definizioni condivise (così come i personaggi) non esistono, ci siamo presi le istituzioni e siamo noi a condurre e a dare le regole del gioco. O, altrimenti detto: «Vogliamo confrontarci su questo con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, per arrivare alla riforma migliore e più condivisa possibile. Ma sia chiaro che non rinunceremo a riformare l’Italia, se ci trovassimo di fronte opposizioni pregiudiziali». Sui ministeri si potrebbero aggiungere anche altre considerazioni, questa volta più sul versante simbolico che linguistico: in un parlamento ridimensionato nei numeri dopo la riforma costituzionale, ci troviamo un governo fra i più numerosi della storia repubblicana, in cui le donne (che non sono poi così tante meno di altri governi) scompaiono anche perché tre sono senza portafogli e comunque nessuna ha dei ministeri chiave. Ammetto di non esser mai stata sostenitrice di Renzi, ma non posso non sottolineare che quel governo di 16 ministri, composto da 8 uomini e 8 donne, offriva un immaginario ben diverso sia in termini di risparmio delle risorse pubbliche sia di rispetto delle pluralità.
Il Presidente
La seconda è la scelta paradossale di usare il sostantivo «presidente» al maschile. Ai tanti che dicono che sia una minuzia su cui l'intellighenzia di sinistra ha perso un sacco di tempo si potrebbe ribattere che forse chi ha perso più tempo è stato il Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri nella scrittura di comunicati surreali. Si potrebbe partire dalla considerazione che «Presidente» è un termine ormai sdoganato dal punto di vista della declinazione di genere, anche perché se pure Meloni è la prima Presidente del Consiglio non è la prima ad avere una carica di presidente in Italia. Si tratta, inoltre, di una obiezione molto discutibile: se l'unico educatore di un asilo si definisse “educatrice” o l'unico ostetrico di un ospedale si declinasse al femminile sarebbe guardato con sospetto, si farebbero illazioni sul suo orientamento sessuale, si avrebbero dubbi sulla sanità psichica. Il «è un mestiere / ruolo che si declina al maschile» è una posizione più militante di quella di chi chiede che sia rispettata la lingua italiana e che si limita a osservare che il sessismo nella lingua italiana sia ancora ben presente. Oltre a questo, la scelta è definitivamente politica e simbolica (al di là dello scurrile commento «Io non ho mai considerato che la grandezza della libertà delle donne fosse potersi far chiamare capatrena») perché Meloni stessa ha chiamato con il pronome corretto le presidenti donne di altri Paesi e istituzioni europee e talvolta usa lei stessa elementi di linguaggio inclusivo, come ricordare sia gli uomini sia le donne delle forze armate. Queste considerazioni ci dicono che, proprio come ha fatto emergere nella risposta alle considerazioni preoccupate di Debora Serracchiani sul ruolo delle donne: «Le sembra che io stia un passo dietro agli uomini?», a Meloni interessa infrangere il «tetto di cristallo», affermarsi come “la prima” e, pazienza, se poi è l'unica. Lei è una donna, non le donne. E per questo “sceglie” di definirsi al maschile, mortificando l'italiano (e per una sovranista dovrebbe essere un peccato capitale) e collocandosi paradossalmente proprio nel diritto di scegliere il genere con cui essere appellati, che è una posizione molto lontana dalla sua posizione politica (tipica, ad esempio, delle Comunità LGBTQ+ e dei sostenitori del cosiddetto “linguaggio ampio”).
Samantha, Tina, Nilde
Infine, non si può tralasciare l'elenco dei nomi di coloro «che hanno costruito, con le assi del loro esempio, la scala che oggi consente a me di salire e di rompere il pesante tetto di cristallo che sta sulle nostre teste». Un vero capolavoro comunicativo. Meloni ci propone una sorta di elenco della spesa di donne, che non solo sono solo raramente citate rispetto a un merito preciso ma che non sempre sono legate con il discorso del “tetto di cristallo”. Sono donne che è difficile non ammirare, perfino per un uomo o per una donna di sinistra (Casellati esclusa, si intende). Si potrebbe quasi pensare a un'offerta di mediazione, eppure è piuttosto una manipolazione: un immaginario patriottico e rassicurante, che tutti possono condividere, di figure familiari che si possono addirittura chiamare col nome di battesimo. Eppure appellare per nome le donne è un atto linguistico e simbolico potente: può dire vicinanza ma anche ridimensionamento, e ce lo ricordano le cronache di tutti i giorni quando persone significative femminili sono sempre chiamate per nome (“Samantha”), mentre i loro omologhi maschili hanno addirittura un cognome (scommetto che di Parmitano forse il nome non lo si conosce o, comunque, non verrebbe da usarlo in un titolo di giornale). Anche perché è lecito pensare che Nilde Iotti sarà stata chiamata solo per nome da una cerchia ridottissima di persone, così come molte altre presenti nell'elenco. Se poi si volesse approfondire ancora un poco, si potrebbero ripercorrere le tensioni tra Maria (Montessori) e il fascismo oppure ricordare che Tina (Anselmi) presiedette la commissione delle Pari Opportunità che diede alle stampe Il Sessismo nella lingua italiana curato da Alma Sabatini e che avrebbe certamente avuto qualcosa da ridire sulle posizioni di Meloni.
Si potrebbe continuare ad approfondire, ma il punto della questione è stato messo sufficientemente in luce: parole e azioni non sono separate; si intrecciano, si rafforzano, si affermano; possono creare benedizioni o catastrofi.
Le parole rivelano, già ora che si è appena all'alba. Non lasciamo che il giorno ci sorprenda all'improvviso.
Simona Borello
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