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politica
494 - Una riflessione postelettorale |
Tra le ragioni di una débâcle
Nel corso della recente campagna elettorale, il segretario Pd ha lanciato l’allarme: «Con questa legge elettorale la destra può aggiudicarsi i due terzi dei seggi e cambiare la Costituzione senza referendum». Meloni gli ha risposto: «Questa legge l’avete voluta voi». Ed era purtroppo vero. |
È il caso di ricordare come si arrivò all’approvazione del Rosatellum nell’ottobre 2017, a meno di cinque mesi dalle ‘politiche’ del 2018. La trattativa si sviluppò tra il Pd allora al governo (con Gentiloni, mentre Renzi era ancora segretario) e Lega e Forza Italia: per il Pd fu condotta da Rosato (fedelissimo di Renzi e attuale presidente di Italia Viva), per la Lega da Calderoli – ‘esperto’ di leggi elettorali in quanto già estensore del famigerato Porcellum – e per Forza Italia da Paolo Romani, capogruppo al Senato, già inquisito per bancarotta e corruzione e poi condannato in via definitiva per peculato. Tra loro si arrivò a un accordo, concordando che primo firmatario sarebbe stato Rosato. Nell’iter parlamentare, il governo impegnò tutta la sua autorevolezza: Gentiloni, sollecitato da Renzi, richiese per ben otto volte il ‘voto di fiducia’. La motivazione di tale scelta – inusuale in quanto le leggi elettorali non sono di competenza del governo – consisteva ufficialmente nella ristrettezza dei tempi: si era a fine legislatura. In realtà, considerato che le opposizioni (M5S, Sel e FdI) non minacciavano l’ostruzionismo, era evidente un secondo motivo: nel Pd non pochi dubitavano o dissentivano. Era infatti evidentissimo, già allora, che assegnare una parte cospicua dei seggi con il maggioritario uninominale a turno unico significava favorire di gran lunga la coalizione di centrodestra, consolidata da decenni, a fronte dei contrasti pressoché insanabili che dividevano i suoi avversari, in primis Pd e M5S. È d’altronde noto che il voto di fiducia viene utilizzato soprattutto per compattare i ranghi nelle proprie fila ed evitare i franchi tiratori. E a ciò si aggiunga che si era alla vigilia di una tornata elettorale in cui le liste Pd sarebbero state composte da Renzi, per cui i dissidenti si sarebbero giocata la ricandidatura.
Così passò il Rosatellum, che nel febbraio scorso Enrico Letta sarebbe giunto a definire «la peggiore legge elettorale di sempre». Ma negli ultimi tre anni – consapevoli dell’errore commesso e del rischio incombente ‒ si è davvero fatto tutto il possibile per cambiare questa legge elettorale? E poi, una volta constatata l’impossibilità di ottenere quel risultato, si è davvero fatto il possibile per riunire tutti coloro che potevano opporsi alla destra? Se infatti, come lasciano intendere le dichiarazioni di Letta, si temeva non soltanto una sconfitta ma una disfatta, perché archiviare il «campo largo» con i Cinquestelle? (Il colmo è che viene riesumato dopo le elezioni, così come soltanto dopo le elezioni si è ripreso il tema della pace...) Forse che Lega e Forza Italia si sono vergognate di presentarsi con FdI che era all’opposizione mentre stavano al governo? L’appello in extremis di Letta è apparso poco convincente: perché l’elettore avrebbe dovuto spaventarsi se i politici non si erano granché preoccupati e attrezzati?
Il risultato è sotto i nostri occhi. L’onda nera non c’è stata nel paese (il centrodestra otteneva già il 49% dei consensi nelle europee del ’19, con risultati migliori degli attuali in termini di percentuali e uguali in numero di voti), ma dilaga nelle istituzioni: la maggioranza sfiora il 60% e con i presidenti neoeletti del Senato e della Camera la destra-destra arriva alle alte cariche dello Stato.
Avevamo Speranza
Nella scorsa legislatura la sinistra era rappresentata in Parlamento anche dal gruppo di Liberi e Uguali. Per alcuni, quella era la “vera” Sinistra, che aveva rotto con Renzi e spaccato il Pd. Nell’estate 2019, alla nascita del Conte 2, quella compagine ottenne il Ministero della Salute, affidato al suo esponente di spicco, Roberto Speranza. L’eredità del neoministro non era invidiabile: si veniva da una lunga stagione di tagli (gestita in buona parte, ahinoi, dal centrosinistra), che aveva già prodotto scarsità di risorse, dismissione di molte strutture, liste d’attesa crescenti e una grave carenza del personale. Il ministro si mise al lavoro, riuscendo ad arrestare il trend negativo del budget assegnato alle Regioni e operando per ampliare gli accessi alle specialità.
Pochi mesi dopo scoppiò la pandemia e Speranza si trovò in prima linea ad affrontarla, con risultati che – se raffrontati con quelli europei – presentano luci e ombre, ma che sarebbe lungo e complesso approfondire. Il punto è un altro. Gli si offriva una straordinaria occasione per una grande battaglia finalizzata al rilancio della sanità pubblica. Speranza non ha saputo coglierla: è stato, forse, un diligente funzionario, ma un politico men che mediocre. Di fronte alle drammatiche carenze evidenziate dalla pandemia, era il momento ideale per proporre una radicale inversione di tendenza. Se un progetto del genere fosse stato enunciato e ribadito ogni giorno con forza e determinazione (come fatto a suo tempo dal ministro Salvini sugli sbarchi) avrebbe trovato largo sèguito e non solo tra i soliti sinistrorsi; e se fosse stato contrastato, sarebbe almeno entrato nell’agenda politica come terreno di aperto contrasto, rendendo evidente qual era la ‘differenza’ della sinistra.
Ciò non è per nulla avvenuto. Ci si può addirittura domandare se con un buon ministro di centro o di destra sarebbe stato diverso. E alla comparsa dei dati della fondazione Gimbe sul sistema sanitario nazionale – 12 ottobre – i quotidiani lo hanno rimarcato con coro unanime: Cenerentola Sanità, spendiamo poco e male (Avvenire), Investimenti in sanità pubblica, l’Italia è sempre l’ultima nel G7 (Il Manifesto). Siamo al sedicesimo posto in Europa. E persino a Torino "La Stampa" dedica pagine alla Caporetto Pronto Soccorso (7 ottobre).
Autocritica e prospettiva
Reduci dai doppiogiochismi di un Renzi, dagli sbagli o dalle ingenuità di un Letta e dall’inettitudine politica di uno Speranza – e ovviamente non di lui solo ‒ non c’è da stupirsi che gli accorati appelli dell’ultima ora alla “vigilanza antifascista” siano suonati (per dirla con Gozzano) come «parole che i retori han reso nauseose». Servono a mala pena a convincere i già convinti, e sempre meno.
L’autoflagellazione non serve, dirà qualcuno: e ha ragione. Ma all’indomani delle elezioni bisognerà pure imparare la lezione. La prova del nove è nei dati del 25 settembre. Se si guarda non alle percentuali ma al numero dei voti, salta all’occhio che il successo della destra scaturisce non da un aumento dei suoi elettori, ma dal boom dell’astensione, salita al livello più alto della storia repubblicana, oltre il 36%: mai si era registrato un crollo di nove punti nell’affluenza. È stata la sinistra a perdere una quota notevole dei propri consensi, consegnandola al non-voto.
Qualcuno ora spera che la ‘fiammata’ (!) di Meloni sia di corto respiro, come lo sono state quelle di alcuni suoi predecessori: il Renzi della rottamazione (40% alle europee 2014), il M5S di Grillo (il 32% nel 2018) e Salvini (il 34% delle europee 2019), che per brevi stagioni hanno catalizzato le volatili attese di un 20% degli italiani alla disperata ricerca dell’uomo nuovo (il deus ex machina di cui ha parlato Prodi).
Può darsi. Dipenderà dalle circostanze e anche dalla capacità delle opposizioni di riorganizzarsi con idee e azioni convincenti, nelle condizioni date. Ma è non solo possibile ma probabile che Meloni si riveli più intelligente e/o più furba di quegli altri leader. Forse non a caso – ci piaccia o no, occorre riconoscerne il merito ‒ è la prima donna che riesce ad arrivare a capo di un governo nella storia d’Italia.
Giovanni Pagliero
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