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348 - 1948-2008, I 60 ANNI DELLA COSTITUZIONE |
COSTITUZIONE E DIRITTI UMANI TRA PERICOLI E MATURAZIONI
Questo maturo anniversario, che nella vita delle persone può designare un certo compimento ed equilibrio, un punto alto della vita, arriva per la nostra Costituzione in un tempo di trepidazione e pericolo. Nell’ultimo decennio, maggioranze di elettori hanno reso vincenti forze politiche nate su quel terreno selvaggio e volgare che ignora quanta storia, lotte, sofferenze, ideali, e quanta cultura civile e capacità di dialogo e vera spiritualità delle relazioni umane, produssero, nel doloroso dopoguerra, questa nostra Carta di convivenza e di cammino civile. |
Un gran pezzo di Italia miserabile sta fuori dal patto umano e civile che la nostra grande Costituzione esprime. Sta fuori per ignoranza indotta ad arte, con la corruzione mediatica, e per conseguente imbarbarimento. La barbarie della vita sterile, soffocata nelle basse ambizioni tutte per sé, con gli altri come rivali e non soci, nella malvagia filosofia che «o si domina o si è dominati», o sorpassi o sei sorpassato, nell’anima striminzita ridotta ad aspirare il possesso di oggetti, questa barbarie è maledettamente cresciuta, in mezzo alle continue meraviglie tecniche, negli ultimi decenni italiani. Ogni tanto, un segno di riscossa civile e sociale, una ricomparsa di umanità politica. Ma la linea di tendenza è disperante. Anche le novità volenterose rivelano questa fibra consunta.
Eppure, il riferimento per obbligo di calendario a quel testo costituzionale, illuminato e illuminante (certo correggibile nelle sue parti tecniche strutturali), ci chiede di ritrovare coraggio. Sotto la pelle coriacea, animalesca, delle competizioni di potere fine a sé stesso, una società, pur disorientata e sedotta dalle illusioni franose della «miseria brillante» (Kant), è fatta infine di persone che vivono sentimenti, aspirazioni, sofferenze umane di sempre, universali, anche nelle paure (spesso artificiali) e nelle tragedie persino domestiche, che all’estremo rendono sospetto anche il vicino e vuoto di senso anche il respirare, per non dire il pensare. Le cronache danno, della politica come della vita privata, l’immagine peggiore, per eccitare il mercato degli orrori, ad ulteriore scoramento e paura. Ma quando e dove i sentimenti comunque umani possono essere un poco comunicati e condivisi, in piccole cerchie di amicizie e di relazioni comunitarie, allora si ritorna a riconoscersi, a riconoscere anche lo straniero e l’emarginato che vagano in cerca di volti che guardino il loro. Mai l’umanità è tutta perduta. Mai è lecito rassegnarsi a considerarla perduta, in noi e in chiunque. Nella rassegnazione, la perdiamo.
Un diritto dinamico
Non è fuori luogo confrontare la Costituzione, legge suprema e orientativa della Repubblica, con la pesante piccolezza delle «petites misères de la vie quotidienne» (Marx, in una lettera). Giancarlo Caselli, nell’incontro del 10 dicembre, giorno del lutto cittadino per la tragedia sul lavoro, presentando un programma del Museo Diffuso sull’altro sessantennale della Dichiarazione universale dei diritti umani, ha evidenziato il valore di quel culmine della Costituzione che è l’art. 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo principio, ha detto Caselli, supera la concezione del diritto come cristallizzazione dei dati di fatto, e fonda l’obbligo politico e civile di percorrere una via dinamica, di effettiva realizzazione della dignità umana. E supera la stessa esigenza di legalità: la legalità è necessaria, specie quando manca, ma non è sufficiente, perché osservare le leggi esistenti non basta a realizzare tutti i diritti umani di tutti. La giustizia integra dinamicamente la legalità, come ha insegnato in termini limpidi anche don Milani, è lotta democratica e nonviolenta per migliorare la legge. La giustizia consiste non nel prendere ciò che si pretende per sé, ma nel rendere a ciascuno quel che gli è dovuto, cioè il rispetto pieno della infinita dignità della persona, che neppure la colpa distrugge.
Diritti e doveri umani
Anche per questo abbiamo proposto che il programma sui Diritti umani includa anche una riflessione sui «doveri umani» (dei cittadini, ma anche degli stati). La garanzia effettiva dei diritti non può essere solo la legge e le sanzioni, ma la coscienza interiore dei doveri che i diritti degli uni impongono agli altri, a reciproca garanzia. C'è una tradizione trascurata – nel pensiero antico, poi in Mazzini, Gandhi, Maritain, Buber, Simone Weil, Levinas, ecc. – che ormai deve integrare la giustissima affermazione moderna dei diritti umani, per correggere la deriva individualista prevalentemente rivendicativa e disgregativa, che compromette e vanifica gli stessi diritti delle persone e dei popoli, degradandoli in sottrazioni private al bene comune.
E' chiaro che non si tratta dei doveri imposti ai sudditi dai sovrani, rispetto ai quali Bobbio vedeva nella moderna emancipazione del cittadino «l'età dei diritti». Si tratta invece dell'altra faccia dei diritti nelle relazioni personali e politiche, cioè dell’etica universale del «rispetto» dei diritti, riassunta da Albert Schweitzer. L’obbligo verso l’altro è originario (Simone Weil, La prima radice), fonda il diritto e la dignità di ciascuno, non deriva dal contratto sociale, che su di esso invece si fonda così da poter fiorire e proliferare in successive generazioni di diritti che affinano la coscienza comune della dignità della persona. Quanto cammino da fare! Ma anche quanto cammino fatto nei secoli, a caro prezzo, registrato nelle carte dei diritti, non solo per non perderlo, ma per proseguirlo, indefinitamente. Tale è infatti il cammino infinito dell’umanità, nella sua miseria e anche nella sua grandezza.
Enrico Peyretti
«Che i Diritti dell'uomo siano originariamente i diritti dell'altro uomo, e che esprimano l'idea dell'essere-per-l'altro nel tessuto sociale, dell'essere-per-lo-straniero, questo mi sembra il senso grandioso della loro novità» (Emmanuel Levinas).
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